Capitolo 3

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Giulia si svegliò di soprassalto, completamente sudata nonostante fosse dicembre e con il rumore di spari che riecheggiava nelle orecchie. Si guardò intorno constatando di essere nella sua camera a Roma, l'orologio segnava le 04.30 del mattino. Sospirò esausta, era l'ennesimo incubo da quando era rientrata a casa. Si scostò le coperte dal corpo sudaticcio e si avvicinò all'armadio per prendere un cambio pulito. Lentamente si diresse in bagno, cercando di non fare rumore per no svegliare Laura e Adriano, che dormivano nella stanza accanto. Si chiuse la porta del bagno alle spalle, con la chiave e aprì il getto dell'acqua calda, infilandosi in doccia velocemente. L'acqua calda l'avvolgeva e le distendeva i muscoli tesi. Non le importò del fatto che si potesse bagnare le bende delle ferite, le avrebbe cambiate dopo. L'unica cosa a cui prestò attenzione fu a non muovere troppo il braccio sinistro. Con la schiena si appoggiò alle piastrelle fredde della cabina. Cercò di distrarre la sua mente dai ricordi dell'attentato e inevitabilmente finì con il pensare a Niccolò. Era rimasta sorpresa di vederlo quella mattina in aeroporto e stupita di sentirsi felice nel ritrovarselo davanti agli occhi. Il respiro le si era mozzato quando l'aveva stretta fra le braccia. Quel tocco così dolce le era mancato terribilmente, anche se non voleva ammetterlo. Le era costata un'enorme fatica staccarsi da lui, ma lo aveva fatto comunque e come se fosse ritornata nella sua perenne apnea, gli aveva rivolto un mezzo sorriso di cortesia e poi dato le spalle. "Stupida!" questa era l'unica cosa che Niccolò le aveva detto e non poteva dargli torto. In realtà erano entrambi degli stupidi, troppo orgogliosi per potersi amare. Non voleva ammetterlo, ma voleva che Niccolò adesso fosse lì con lei a stringerla ancora. Con lui sentiva che le sue paure l'abbandonavano. Dall'altro lato di Roma, Niccolò se ne stava steso nel suo letto troppo grande per un ragazzo solo. Ogni tre per due sospirava affranto, mentre Spugna, che gli stava accanto, lo guardava ad orecchie chine.

- Lei sta bene! Dovrei essere felice no? – chiese rivolto al cane, che si tirò su con il busto e mugugnò. – Hai ragione, non potrò mai essere felice se non è al mio fianco! – disse quasi con la voce rotta. – Come farò ad andare avanti! – sospirò ancora. Spugna si riacquattò al suo fianco, sbuffando anche lui, come se capisse e provasse gli stessi sentimenti del suo padrone.

***

Giulia e Fatima fissavano le tante bare in legno di fronte a loro. L'esercito italiano aveva riportato in patria le vittime dell'attentato che erano state portate in una delle chiese di Roma, che era stata lasciata aperta per tutto il giorno precedente per permettere ad amici e parenti di porgere i loro omaggi. Sui feretri erano state messe la bandiera italiana e le foto dei caduti in modo che venissero riconosciuti. Le due ragazze fissavano quella di Martina, loro compagna di stanza e collega. Fatima che era da sempre apparsa la più forte fra le due, faticava a trattenere le lacrime, mentre stringeva la mano di Giulia al suo fianco. La castana invece, cercava un qualcosa per scappare da lì. Il respiro le si faceva sempre più affannoso mentre si guardava in torno e non vedeva altro che gente disperata, china sui resti dei loro cari. Lasciò malamente la mano dell'amica e con fiato corto, corse letteralmente fuori dalla chiesa, chiudendo gli occhi e ispirando profondamente quando fu all'aria aperta. Con la schiena si appoggiò ad un muro lì vicino e con una mano sul petto, mentalmente contava per cercare di ridare un ritmo normale al suo respiro.

- Va tutto bene? – le domandò qualcuno facendola sobbalzare. Di fronte a lei, nella divisa da cerimonia c'era il sergente Ferranti, colui che le aveva salvato la vita. Giulia sospirò, annuendo appena.

- I funerali non sono il mio forte! – rispose a capo chino. Il sergente fece uno sbuffo divertito mentre si toglieva il cappello dell'uniforme.

- Siamo in due! – disse mentre si guardava intorno. Giulia alzò il capo guardandolo incuriosita.

- Sembra assurdo! – sussurrò la ragazza guardando anche lei il via vai di parenti e amici.

- Già! – rispose il sergente sospirando. Tra i due calò il silenzio.

- Ha perso qualche caro amico? – domandò Giulia, non sapendo cosa dire.

- A dire la verità erano tutti cari amici! Li conoscevo tutti. Siamo partiti insieme per questa missione! – disse il sergente col dolore negli occhi. – E lei? – chiese poi, indicandola.

- Io non conoscevo tutti, ma comunque sì. Una delle mie compagne di stanza... - rispose Giulia affievolendo la voce verso la fine, sentendo gli occhi pizzicarle. Trovava tutto quello ingiusto. Martina, così come Giacomo, Lorenza e tutti gli altri non meritavano di morire.

- Non smetterò mai di chiedermi perché l'uomo può essere così crudele! – disse asciugandosi la guancia. Il sergente Ferranti non disse nulla, si limitò a guardarla.

- Sa, ci hanno costretti a prendere parte ad una seduta con lo psicologo. Dicono che ci serve per elaborare quello che è accaduto e anche per vedere se siamo idonei per tornare al lavoro! – raccontò la ragazza con voce spregevole.

- Sì, hanno obbligato anche noi! – disse il sergente, decidendo di affiancarla e appoggiarsi anche lui al muro. – Siamo tutti in congedo! Non torneremo in servizio se non ce lo dice lo psicologo! – spiegò sospirando nervosamente. – Dio quanto li detesto! Come se loro potessero sapere davvero cosa abbiamo passato e quello che proviamo! – strinse forte i pugni tanto era nervoso per quella situazione.

- A quanto pare lei ed io la pensiamo uguale! – borbottò Giulia guardando dritta davanti a sé.

- Diamoci del tu, siamo sopravvissuti ad un attentato terroristico, mi hai ricucito l'addome, credo che possiamo lasciare da parte i convenevoli! – le fece un sorriso il sergente. Giulia lo guardò e inevitabilmente si sentì contagiata da quel sorriso.

- Sì, hai ragione! – rispose poi.

- Marco, la cerimonia sta per cominciare, dobbiamo prendere posto! – lo richiamò poco più distante un collega.

- Arrivo! – rispose staccandosi dal muro. – Ci vediamo alla seduta di gruppo! – salutò per poi rinfilarsi il cappello ed entrare in chiesa. Giulia annuì semplicemente, restando appoggiata al muro, mentre sentiva intonare dall'interno della basilica quello che doveva essere il "Silenzio" come commemorazione. Preferì restare fuori e non prendere parte alla cerimonia. Ascoltò la messa dall'esterno, troppo sconvolta e provata per riuscire ad entrare, mentre la sua mente andava inevitabilmente al ricordo di sua madre.


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