Capitolo 4

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-Tu vorresti dirmi che non hai un cellulare?-

-No,te l'ho già detto-

Addento il mio croissant alla crema mentre guardo la faccia stupita di Ian piuttosto divertita.

-Ma come fai senza?-

-Sono qui,vicino a te e so bere tranquillamente un cappuccino senza avere un cellulare,a me sembra che io stia sopravvivendo comunque-

Non so se la cosa più strana sia il fatto che io ed Ian siamo andati a fare colazione o che lui consideri clamoroso non avere un cellulare,forse di più la prima.

-Ma se dovesse esserci un'emergenza e avessi bisogno dei soccorsi?-

-Accetterò la venuta del mio destino- rispondo con sarcasmo,ma non più di tanto.

-Non ci voglio credere- dice dopo una breve risatina.

Segue un momento di silenzio piuttosto imbarazzante.

-Greta, io ti ho invitata a colazione per un motivo ben preciso,volevo parlarti di una cosa. Sai che io fra poco tornerò a New York?-

Ho una fitta allo stomaco, sapere che non lo vedrò più non mi fa sentire affatto bene.

-Ok,quindi?-

-Ho visto l'appartamento in cui vivi,non posso permettermi di lasciarti lì. Da me potresti vivere nella città che sogni da tempo,avere un lavoro che ti piace. Noi abbiamo una relazione senza alcun impegno ma la compagnia reciproca ci piace, o almeno credo, quindi,Greta,parti con me,ti darò quello di cui hai bisogno e non mi dovrai niente-

Mi alzo bruscamente dalla sedia del caffè scossa da mille domande, questa proposta mi lascia atterrita e non riesco a fare mente locale.

Si è sicuramente fatto delle aspettative ed era quello che temevo,non posso andare a convivere con lui, non sono pronta per tutto questo e non voglio farlo.

Esco dal bar e lui mi segue non prima di aver lasciato dei soldi sul tavolino.

-Aspetta!- mi afferra per un braccio ma senza farmi male e sono costretta a fermarmi.

Mi volto istintivamente e incontro il suo sguardo,gli occhi supplicano di ascoltarlo, di fermarmi ed è quello che farò penso che tutti abbiano il diritto di essere ascoltati anche se,come in questo caso,non hanno alcuna possibilità di successo.

-Non posso venire a vivere con te,non stiamo insieme, Ian-

-Lo so, ma vedila così, saremo coinquilini che ogni tanto vanno a letto insieme ma senza tutte quegli obblighi o le gelosie da fidanzati che sinceramente non sopporto-

Da questo punto di vista non sembra così male,la verità è che mi sono stancata di quell'appartamento del cazzo e l'ultima volta che ho dormito in un letto vero è stato un anno fa nella camera d'albergo di un figlio di papà che mi credeva una escort.

-Senti...io devo rifletterci- concludo e faccio per andarmene

-Come posso sapere la tua decisione? Non hai un numero di telefono e parto dopodomani-

-Passa domani a casa mia e avrò preso una decisione,ricordi dov'è?-

Annuisce e abbassa il capo,come se desse per scontato un mio rifiuto,questo incute in me una certa tenerezza perché ho capito che ci tiene davvero che io parta con lui,ma ci devo pensare e al momento sono piuttosto confusa.

Sembra che ci tenga a me e vedermi abitare in quel buco non deve piacergli per niente,ma non comprendo perché gli importi così tanto di me.

Mi avvicino a lui,gli poso la mano sul collo per avvicinarlo e gli stampo un bacio,per poi andarmene.

Arrivata a casa mi fermo un attimo a guardarmi intorno,soffermandomi sulla muffa creatosi negli angoli del soffitto, sulle increspature sul muro e mi chiedo se questa è davvero la vita che voglio vivere.

Cerco di proiettarmi nel futuro in questa casa,in questo posto e non posso fare a meno di non vedere nulla,il vuoto.

Però guardando anche l'altra faccia della medaglia a New York le cose potrebbero complicarsi, potrei non trovare un vero lavoro, oppure litigare con Ian e non avere più un posto dove andare.

Il solo pensiero di tornare a dormire per strada mi preoccupa, a volte venivo ospitata ma altre volte no e le fredde panchine erano la mia unica compagnia durante la notte.

Superare il confine che separa la vita agiata da quella miserabile ti trasforma automaticamente da una persona ad una cartaccia che si può calpestare senza conseguenze.

Venivo guardata dalla gente come se fossi un insetto fastidioso da eliminare,a volte urlavo per fino contro ai passanti,ma la mia rabbia non era di certo diretta a loro,non completamente.

Non mancavano di certo le fughe dalla polizia dopo aver rapinato un negozio di alimentari, una volta erano riusciti a prendermi ma avevo gettato i sandwich rubati nel cassonetto e siccome ero ancora minorenne,avevano chiamato mio padre per venire a prendermi alla centrale.

Sapevo fin dall'inizio che non l'avrei passata liscia, in auto con una mano teneva il volante e con l'altra mi stringeva forte il braccio perché temeva la mia fuga.

Una volta arrivati a casa mi aveva trascinata fino in casa, continuava a urlarmi contro e a ripetere che sua figlia non poteva essere una ladra e che facevo meglio a morire piuttosto che essere così.

Mi ricordo con lucidità di quella sera e di come sul mio corpo ci sia ancora una cicatrice della bottiglia di birra che mi ruppe addosso

Sommersa tra questi pensieri mi accorgo che sto respirando affannosamente, vorrei fare dei respiri regolari ma non ci riesco e gli occhi cominciano ad inumidirsi.

Riconosco uno dei miei attacchi d'ansia e corro in bagno a prendere le pillole, me ne sono state prescritte due ma per essere sicura dell'efficacia ne prendo quattro.

Mentre cerco di calmarmi mi stendo sul divano e cerco di addormentarmi e di cancellare questi orribili ricordi dalla mia mente,anche se so che come sempre, sarà un tentativo vano.


Sento bussare alla porta dell'appartamento, aspettavo Ian da dieci minuti e con leggero fastidio noto che è in ritardo, ma la felicità nel rivederlo sopprime quella sensazione.

Guardo per l'ultima volta le mura in cui ho abitato per praticamente quattro anni,non ci sono bei ricordi,non penso ad altro che a restituire le chiavi a Max e dimenticare l'odore di marcio delle pareti.

Ian è fermo sulla soglia e si appoggia allo stipite incrociando le braccia.

-Allora?- chiede in trepidante attesa

-Andiamo- rispondo afferrando la mia piccola valigia.

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