Capitolo 35

1K 25 1
                                    

Procedo a passo spedito ignorando le imprecazioni dei passanti che urto a causa della mia mente distratta e il passo scoordinato.

Attraverso la strada ripercorrendo mentalmente il percorso, procedendo la camminata velocemente, un' andatura originata dall'impazienza e dalla frustrazione.

Tiro un sospiro di sollievo nel momento in cui l'odore fatiscente dell'Hudson stuzzica le mie narici, vuol dire che ho percorso la strada giusta.

Continuo a camminare, ignorando il bruciore ai muscoli delle cosce e dei polpacci, mi riposerò a tempo debito.

In breve tempo riconosco il sentiero che separa la città dal verde acido dell'erba crespa e da lontano la schiera di alberi spogli dall'aria solitaria e vagamente triste.

Il mio fiatone si deve sentire da lontano perché quando giungo alla vecchia panchina di legno Ian si volta subito a guardarmi.

Uno sguardo interrogativo, sorpreso, ho disturbato la quiete che si era creato nel suo posto preferito, nel silenzio smorzato soltanto dal rombo delle navi merci che percorrono il fiume.

Non capirò mai cosa ci trova in questo posto, forse si tratta solamente di una ricerca della tranquillità, lontano da tutto e da tutti, da suo padre, dalle sue responsabilità al lavoro, da me.

Il solo pensiero che voglia evitarmi mi spezza il cuore, ma non demordo, ne ha tutto il diritto dopo stamattina, anche se spero che cambierà idea.

-Che ci fai qui?- il primo a rivolgermi la parola è lui, anche se il suo tono di voce è colmo di una pacatezza che mi terrorizza.

Mi avvicino alla parte anteriore della panchina, ha gli stessi vestiti di stamattina, stropicciati e per nulla abbinati tra loro cosa molto strana data la sua fissazione per lo stile.

Accanto a lui c'è la carta con il simbolo di un fast food e una palla di stagnola arrotolata.

Non sarà rimasto qui tutto il giorno, vero?

-Ho bisogno di parlarti-

Stringe le spalle e si infila le mani nella tasca del giubbotto girandosi dalla parte opposta.

Le parole sono di nuovo bloccate in gola, ma stavolta è il timore a impedirmi di parlare, il timore che abbia cambiato idea e che tutto sia finito.

La Greta paranoica sta di nuovo prendendo il sopravvento, ma voglio, devo, chiuderla nel ripostiglio della mia mente e lasciare spazio ai sentimenti.

-Ti ricordi la sera in cui sono svenuta e mi hai portata nel tuo letto? Ti dissi che non sapevo cosa significasse essere gelosa, non che non lo fossi, ma non ho mai provato una cosa simile per nessuno e tutto questo è nuovo per me-

Continua a guardare da tutt'altra parte ma so che sta ascoltando.

Non sopportando più questa sua finta indifferenza, devo dire ai limiti dell'infantilità, mi siedo accanto a lui e gli afferro con decisione il viso tra le mani e lo costringo a guardarmi negli occhi.

Non oppone resistenza ma corruga le sopracciglia in modo nevrotico, facendomi sussultare.

Mi tremano le mani e voglio farglielo sentire, fargli sentire l'immensità dei miei sentimenti per lui, che oramai sovrastano il corpo, perciò ne poso una sulla sua gamba.

-Io non so cosa sia l'amore, ok? Ho letto tanti libri al riguardo ma viverlo di persona...beh...è spaventoso, almeno per me, sai come sono fatta. Da quel che so dire 'ti amo' porta grandi cambiamenti e a me terrorizzavano i cambiamenti fino a quando non sei arrivato tu-  faccio una pausa per prendere fiato  -Io sono cambiata grazie a te, ho un futuro, tu mi hai convinto che ci potesse essere. Quando sono con te tutto il resto intorno sparisce, non so se significhi amare, ma è quello che provo per te-

Annuisce sconsolato e distoglie lo sguardo.

-Sì, Greta. Questo significa amare-

E allora perché non è felice? Perché non mi bacia come solo lui sa fare e non ce ne andiamo a casa?

-Ma non mi basta più-

Qualcosa dentro di me è andato in frantumi, come se in quelle cinque parole fosse racchiuso tutto il potere necessario a distruggermi.

-Cosa? C-cosa vuoi dire?-

Si rizza in piedi come se non aspettasse altro, come se fossi stata io ad averlo inchiodato alla panchina e che aspettasse solo che finissi di parlare, come se le mie parole non contassero niente.

Se ne sta andando verso il sentiero per niente illuminato, inizia a fare buio, ma so per certo che lui conosce la strada a memoria.

Mi alzo anche io, in preda ad uno spasmo nervoso e agitato, con l'intenzione di sbarrargli la strada, voglio capire, voglio che mi parli e che mi dica che cazzo gli prende.

-Sei troppo instabile. Ho bisogno di tempo, lasciami stare-

Dopo queste parole, secche, affilate come lame di rasoio, se ne va, percorrendo il sentiero che mi aveva condotta da lui qualche minuto fa, con lo stesso passo spedito e frettoloso.

Lui vuole andarsene da me, con la stessa urgenza di come io volevo raggiungerlo.



Vorrei dormire, solo dormire.

Ma il letto è così freddo, gelido, senza di lui.

Mi vergogno di essermi esposta così davanti a lui, di essermi denudata completamente.

Mi ha vista nuda almeno un centinaio di volte ma mai così, ero nuda davvero su quella vecchia panchina, fragile come le mie emozioni, stroncate da quelle poche parole.

Non ho più visto Ian, Josh mi ha confermato, con mio sommo fastidio, che si è chiuso in camera non appena è arrivato a casa e che da quel momento non è più uscito.

Mi uccide, letteralmente, il pensiero che possa soffrire per colpa mia, anche se il mio sesto senso mi dice che c'è dell'altro, in fondo.

Ho preso qualche pillola ma il sonno non sembra arrivare, anzi, è bloccato a qualche chilometro di distanza, mentre la mia mente continua a viaggiare inarrestabile davanti al fiume Hudson, a quella panchina.

Inizio a pensare che la me di qualche mese fa in fondo aveva ragione, se ti esponi troppo, se esterni le tue emozioni ti scotti, quindi teoricamente è meglio tenersele per sé.

Ma la parte che prevarica su tutto è la vergogna, non il pentimento: non mi pento per niente di aver detto quelle cose, lo rifarei altre cento volte se servisse ad averlo vicino a me.

ChosenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora