Chapter 33

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Quelle parole provocarono in me una reazione forte e ben conosciuta, che il mio corpo era abituato ad accogliere: l'invidia.

Provavo invidia ogniqualvolta un bambino o una bambina veniva adottato da una coppia che, per l'ennesima volta, mi aveva scartata.

Provavo invidia ogniqualvolta la mia innocente Carly decideva semplicemente di giocare con gli altri bambini della sua stessa età, piuttosto che passare il tempo con me.

Provavo invidia ogniqualvolta andavo alla messa delle 9.30 e vedevo famiglie intere riunirsi per condividere quel momento di preghiera tutti insieme. Vedevo i genitori fieri dei loro figli che facevano il battesimo, la prima comunione o la cresima.

E vedevo di quante cose "normali" ero stata privata contro la mia volontà.

Ero stata sfortunata, mentre altri no.
Perché io? Perché io e non loro?

Ed ogniqualvolta questi pensieri e questa invidia attraversavano la mia mente, mi imponevo la recita di 10 "Ave Maria" come punizione. Perché l'invidia era un peccato capitale tanto quanto la superbia, di cui ero una peccatrice abituale.

Non potevo permettermi di ergermi sopra gli altri, credendo di dover essere ritenuta più meritevole di altri e  mettendo in discussione il piano di Nostro Signore.

Se lui aveva "prescritto" questa via per me, allora c'era un motivo e dovevo avere fede nel suo disegno.

Nonostante, però, la auto-punizione e la riflessione etica della mia coscienza, ero umana anche io e caddi altre numerose volte nel peccato dell'invidia.

Ma ciò che per me fu totalmente nuovo quel giorno, era l'esperienza sconosciuta dell'invidia intrisa di qualcosa di bollente, caldo e furente.

Era un'emozione calda, soffocante e amara da percepire, come se d'un tratto i miei organi interni si stessero surriscaldando. Come se si stessero preparando a qualcosa di più grande, anche se ancora ignoto.

"Si, ed è anche tremendamente fuori stile! Lo sai che le ballerine sono fuori moda da un decennio? Che orrore!"

In quell'esatto momento, capii che l'attenzione che ero riuscita a catturare si sarebbe improvvisamente rivolta alla ragazza dal vestito di velluto, che mi guardava sprezzante dall'alto dei suoi tacchi a spillo.

La mia mente ripeté numerose volte quella frase, facendo così accrescere quel misto di sensazioni a cui ancora non sapevo dare un nome specifico.

Sicuramente riconoscevo dei tratti dell'invidia, poiché Briana, ancora una volta, aveva voluto attirare i riflettori su di sé e screditarmi per qualcosa di stupido, futile, insignificante, facendomi passare in secondo piano.

Che cosa avevano di male le mie ballerine? Perché ogni cosa che dicevo, facevo o indossavo doveva per lei essere motivo di critica?

Ma la cosa peggiore era che non era l'unico elemento che mi irritava davvero.

Mi importava relativamente poco del suo pensiero sul mio modo di vestire, quello che più mi faceva arrabbiare era il suo continuo tentativo di rubarmi la scena.

Non voleva che io emergessi.
Non voleva che gli altri mi apprezzassero.
Probabilmente non voleva che io potessi avere la possibilità di superarla in qualcosa, ma cosa esattamente?

Forse voleva che gli altri mi trovassero noiosa, soltanto perché mi piaceva discorrere di temi filosofici e profondi?
Che cosa non andava nella filosofia, nella letteratura o nel mio tentativo di analizzare gli avvenimenti da una prospettiva più nascosta, meno intuibile e difficilmente raggiungibile?

Daughter || L.T.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora