Il brusio di sottofondo delle persone dalla nazionalità multietnica che mi circondavano, mentre coppie di tutte le età chiacchieravano tra loro, gruppi di ragazze poco più piccole di me contrattavano con i venditori ambulanti e le mamme rimproverano i propri figli, anche se poi compravano loro un gustoso gelato per scappare dal caldo; mi donava un senso di accoglienza e spensieratezza.
La via principale alberata da una parte e costeggiata dalle rive del lago dall'altra, era ricca di graziose bancarelle nelle quali si sarebbe potuta trovare qualsiasi cosa, dal cibo di strada alle pietanze tradizionali italiane, dalle cover per i cellulari ai lunghi drappeggi di tende dalle fantasie tribali, ma il vero fascino stava nei venditori.
Erano loro il vero emblema.
C'erano i venditori di etnia araba che cercavano di attirare l'attenzione di tutti, alle volte fermando sfacciatamente il cliente in mezzo alla strada per cercare di convincerlo a comprare qualcosa, o altre volte con più discrezione.
C'erano le donne che vendevano gioielli, che ti ammaliavano con la loro eleganza, atteggiamento che forse eseguivano per poter elevarsi di dignità e rispetto in mezzo a quella confusione cosmopolita, o per accrescere anche il valore di ciò che vendevano.
E infine, nascosti dietro i loro capovalori, con aghi, fili, pennelli, pietre preziose e raffinatezza, si trovavano gli artigiani. Coloro che dedicavano anima e corpo alle proprie creazioni, che curavano il minimo dettaglio di ciascuna di esse e che le differenziavano appositamente per arricchire la loro unicità.
Loro erano silenziosi, umili, e forse persino timidi dei propri lavori, perché non sapevano se sarebbero stati accettati o apprezzati dalla gente che li osservava.Ed era la loro umiltà a stupirmi, non erano chiassosi come i venditori marocchini o egiziani, e non squadravano nemmeno dall'alto verso il basso chiunque si avvicinasse ad una collana di coralli e si presentasse con un aspetto poco alla moda, come invece facevano le signore altezzose chiuse nei loro abiti morbidi e i loro occhiali da gatta.
Loro non erano molesti e nemmeno presuntuosi, loro mettevano a disposizione i propri elaborati, il proprio tempo e la propria fatica con lo scopo di creare qualcosa di bello, che attirasse l'occhio. Purtroppo però capitava che il prezzo associato a tutta questa fatica, facesse apparire agli occhi del compratore l'oggetto meno bello e vi rinunciavano.
Ma le cose belle non si possono avere gratuitamente, molte volte bisogna guadagnarsele o conquistarsele lottando.
Altre volte bisogna saper apprezzare ciò che si ha e non pensare di poter trovare qualcosa di meglio, quando non si è in grado di prevedere il futuro."Sai perché non frequento i panettieri?" mi domandò Niall, che in quell'ultimo quarto d'ora si stava dilettando a farmi indovinelli e battute di basso livello, ma alle quali era irresistibilmente impossibile non ridere, date la sua convinzione e le sue espressioni buffe d'accompagnamento.
"Perché alla fine se li conosci, lieviti!" E scoppio in una fragorosa risata, la quale mi fece tornante in mente il verso di una foca, che avevo sentito grazie al libro per bambini dell'orfanotrofio che riproduceva i suoni degli animali.
Quella battuta era terribile, ma Niall era Niall, e riusciva a far ridere la gente con la stessa naturalezza con cui la mattina ci si spazzolava i capelli. Era incredibile.
"Niall! Ti chiedo pietà, ti prego... " e unii le mani in gesto di preghiera, assumendo in espressione terribilmente disperata.
Lui non si offese, anzi rise ancor di più, per poi sfoggiarmi un sorriso malizioso.
Oh no...
"Ma come! Avevo in mente una bella battuta sull'altezza!" Affermò disinvolto, per guardarmi alzando le sopracciglia "Ah giusto, tu non ci arriveresti!"
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Daughter || L.T.
Fiksi PenggemarAbby Hamilton. Una ragazza di 16 anni, orfana, con un passato malinconico. Ha vissuto per 12 anni nell orfanotrofio della città di Londra, fino a quando il famoso cantante degli One Direction, Harry Styles, non decide di adottare quella tenera, inno...