CAPITOLO XXVI (Speciale)

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Nathan's POV

Mi chiudo la porta alle spalle e vi intrappolo dietro i bip continui e fastidiosi che producono i macchinari. Poggio la testa al battente e rivolgo lo sguardo al soffitto, troppo lindo e bianco anche per un ospedale, perdendomi nel ricordo della sua voce flebile e sofferente.

Prima che la mente mi trascini in un mondo di nostalgia e sofferenza, mi accorgo dell'uomo che, poco distante, è seduto in maniera scomposta.

Come al solito ha una gamba accavallata all'altra. Forse è un modo per dimostrare a sé stesso, e agli altri, che anche nella peggiore delle avversità non può perdere l'autorevolezza che lo contraddistingue. Tuttavia, il gomito poggiato al vecchio bracciolo di ferro e la testa cadente sul palmo aperto dicono tutt'altro.

Ossevandolo in quella posa discontinua e scomposta, per un attimo penso che il peso della stanchezza abbia avuto la meglio, facendolo cedere al sonno. Ma mi ricredo quando la sua mano passa dal viso stanco ai capelli spettinati.

Il suo sguardo, circondato da evidenti occhiaie, è fisso sul pavimento ormai da un po', e le spalle ricurve sotto l'enorme peso che devono sopportare rendono la sua stanchezza e preoccupazione ancora più visibile. Così come il sottile strato di barba incolta e la camicia spiegazzata.

Tutto questo contrasta con la figura curata e autoritaria che ha sempre dato di sé.

Adesso, in questo corridoio in cui il silenzio viene spezzato da continui colpi di tosse, in un posto in cui l'eleganza diventa inutile e la sicurezza si trasforma in fragilità, appare come una persona completamente diversa dall'uomo che ricordo.

Mi stacco dalla porta e dalla maniglia che ancora stringevo nella mano e faccio un passo avanti.

Si accorge della mia presenza e raddrizza la sua postura, forse per non apparire ai miei occhi diverso dal solito, avanzando nella mia direzione con aria severa.

I suoi occhi, però, sono una prova più che evidente del suo stato d'animo. Così vuoti e stanchi, arrabbiati e distrutti.

Ricordo perfettamente l'ultima volta che li ho visti.

Ci incrociamo, ancora una volta senza rivolgerci alcun cenno o parola, e mi blocco dopo un paio di passi. Ingoio la poca saliva che mi è rimasta, sentendo la gola raschiare, schiudo le labbra e subito dopo le richiudo.

"Dovresti dormire" avrei voluto dirgli, ma ci ripenso quando ricordo che non ho nessun diritto di dargli un consiglio.

Riprendo la mia strada e mi allontano da questi corridoi freddi e pallidi come la pelle di un cadavere.

Quando la suola calpesta l'asfalto e l'aria pungente dell'inverno raggiunge le mie narici, mi concedo una boccata d'aria fresca. Chiudo gli occhi e per qualche secondo mi concentro sul mio respiro, cercando di allontanare le parole che, con voce debole, mi ha rivolto e che continuano a tornarmi in mente.

Scuoto il capo, come se così facendo potessi scacciare ogni mio rimorso e preoccupazione, e dò uno sguardo al cortile curato che prima non avevo notato.

I miei occhi si fermano su una figura che se ne sta appoggiata al muro dell'edificio. Non è molto distante da me, ha il capo chino e la cascata di mossi capelli scuri le ricade davanti al viso, coprendolo.

La vedo stringere una mano al petto con forza, come se fosse attraversato da un dolore, e mi accorgo che i respiri rapidi e costanti costringono il suo busto ad alzarsi e abbassarsi furiosamente.

Avanzo di un passo, credendo che possa sentirsi male da un momento all'altro, ma più mi avvicino più la sua figura mi appare familiare più i miei passi perdono di velocità.

Light and Darkness- NemesisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora