16 - PALINGENESI [2/2]

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La luce esangue cristallizzò la piana di sabbia e ruscelli salati in un gelido abbraccio. Nella lieve pioggia che cadde sui nostri volti quando, assieme alle legioni dvergar, lasciammo il Tré, distinsi in lontananza le macchie dei fuochi segnaletici che tremolavano nell'alba dalle torri del palazzo. Un addio muto ai soldati che non sarebbero tornati a casa.

I vessilli porpora e argento, il grifone della regale conoscenza che acceca gli occhi colmi di furia animale del lupo, si dibattevano nel vento e decoravano la colonna di cavalieri, alfieri e vassalli che sciabordava nell'erba simile a un fiume scintillante.

Dalle coste della Normandia, marciammo per cinquanta giorni fino ai confini della Russia, e per altri ventitré attraverso le steppe e la taiga. Lì, in quelle che gli abitanti del Mondo Invisibile chiamavano terre nere, l'aria era densa e leggera, di ghiaccio, e serpeggiava tra mari di neve e foreste fitte e scure. Ogni volta che ci addentravamo nei boschi per seguire parallelamente le tracce degli Izgoi di Gorazd, Baruk diffondeva l'ordine: «Non parlate. I Lešiy non tollerano le chiacchiere e sono infide spie».

«I Lešiy?» mormorai al dvergr che mi camminava a fianco.

«Spiriti silvani. Uomini anziani che abitano i fili d'erba o gli alberi, e che ne prendono la loro altezza. Ci stanno osservando.»

Sondai l'oscurità, costellata da lampeggianti occhi verdi: li sentii seguirmi durante la traversata e scavarmi sin nelle ossa.

Due mesi di marcia nel freddo indurirono muscoli, pensieri e aspettative. Dubitavo sarei sopravvissuta se fossi stata sola: il gelo feriva con le sue spietate lame invisibili e, quando calava la notte, l'unico modo per scongiurare la cupa desolazione che soffocava l'umore dell'esercito e dei grifoni da combattimento era quello di accamparsi, accendere fuochi e bere fino a dimoiare le viscere. Ma anche quando l'idromele della poesia scorreva a fiumi, i versi e le canzoni rimanevano imprigionati sulla punta della lingua.

Quella era l'ora in cui la pernice spiegava le ali bianche contro la luna e ritornava a Trèinor, recando notizie dell'ennesima offensiva degli Izgoi, veloce e silenziosa, a Bazal'tgorod.

«Stanno solo prendendo tempo» disse Baruk. «L'Ombra Bianca non si decide a sferrare l'attacco decisivo, anche se è il momento perfetto per abbattere la città. Sta aspettando noi.»

Sta aspettando te, comunicarono i suoi occhi minuscoli e scuri.

«Gli uomini sono nervosi, fratello.» Trèinor spezzettò alcuni rametti tra le dita e li gettò nelle fiamme. «Ora che siamo vicini le inquietudini sono più vivide.»

«Hanno paura della guerra?» domandai.

«La paura è un sintomo naturale, data la situazione. Più che altro...»

«Non ci piacciono quelle sporche sanguisughe» ringhiò Baruk. «Anche se l'antico trattato lega Bazal'tgorod alla Pentapoli, non ci fidiamo dei Viesczy. Sono un branco di bastardi psicopatici.»
L'unico Viesczy che avevo incontrato era stato Gorazd, ma sulla base di quanto avevo appreso non potevo dar loro torto.

«I Viesczy furono tra i primi clan a infiltrarsi nel Mondo Visibile, distruggendo la già poca fiducia che gli umani avevano nelle cose inspiegabili» spiegò Trèinor. «Dovreste avere familiarità con la caccia alle streghe e ai vampiri, Beatrice.»

«Sì, certo.»

«I Viesczy fecero qualcosa di proibito, dando vita a uno stuolo di abomini. Loro... contaminarono alcuni umani. Ci sono storie su cadaveri con gli occhi aperti, dalla pelle che si accendeva di un rosso rubicondo. Gente che si risvegliava nelle casse e rosicchiava il sudario. Guardare uno di quei morti negli occhi equivaleva a farsi trascinare nella loro tomba. Inoltre...»

BAZAL'TGOROD | Città di basalto (Vol. I)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora