XXV

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Ariel Audrey Ivanov, Villa Ivanov, New York.

Da qualche giorno a questa parte avevo un piccolo tarlo nella mente; per precisare, da quando Mikhail mi aveva suggerito di creare una famiglia e non riuscivo a scacciarlo lontano.

Lì per lì, non avevo ponderato la risposta, dopo tutto per me, ragazza inglese che non era cresciuta con i dettami della criminalità, era piuttosto difficile credere che le donne crescessero davvero con una mentalità così retrograda, ma Maria, seppur a modo suo anticonformista in quella società, incarnava le fattezze della donna di casa e avevo bisogno di alcune delucidazioni a riguardo.

A tal proposito, la mattina seguente la cercai per la villa in lungo e in largo, fino a quando non udii delle dolci note strimpellate al pianoforte. Raggiunta la soglia della stanza da cui proveniva la musica, rimasi incantata dalla maestria della riccia; non avrei mai potuto immaginare che quella donna potesse possedere un tale dono, ma a giudicare da come Aleksei, Ella e Gennady fossero ammaliati dalla propria madre e sdraiati a fare dolci versetti, non mi stupii dell'enorme sorriso e dell'espressione di beatitudine sul volto di Maria.

"Ella, non fare così," disse sovrastando le note. "No, tesoro, giù i piedini."

Non mi sentii a mio agio ad interromperla e con un grosso nodo alla gola corsi fuori dal corridoio verso il giardino degli Ivanov. Mi rannicchiai dietro una collinetta di quel terreno immenso e mi sdraiai sull'erba.

Per fortuna, la temperatura marzolina permetteva di rimanere all'esterno senza cappotto; così, distesa al sole, mi resi immediatamente conto di non aver vissuto una vita normale; non che già non lo sapessi, ma il quadretto che Maria aveva dipinto nella sala della musica con i suoi bambini, aveva scatenato in me una potenza di emozioni che da molto tempo avevo rilegato in un piccolo, quanto credevo insignificante, angoletto della mia mente.

Lo strazio di non ricordarmi il volto di mia madre e nemmeno quello di mio padre, se non grazie a delle stupide foto; il non aver sperimentato nulla dell'infanzia; la loro voce, Dio, non avevo mai potuto udire la voce dei miei genitori; ero stata piccola, troppo piccola per ricordare qualcosa, troppo piccola per fare in modo che nella mia testa si imprimesse un qualche stupido ricordo. Niente. Ero vuota. Vuota come un vaso senza fiori e senza acqua. Vuota come lo era stato il mio cuore prima dell' arrivo di Mikhail, prima di rendermi conto che anche io avessi bisogno di amore, prima del ricongiungimento con mia sorella, prima di scoprire che milioni di persone erano passate attraverso l'inferno per poter vivere la vita odierna con serenità.

Nonostante quella consapevolezza, un potente singulto mi raschiò la faringe e più di tutto odiai quella potente malinconia che sembrò non volersi scollare dalla mia schiena per le ore seguenti; era lì, era sempre stata lì, ma avevo cercato di nasconderla, ergendo un grosso muro di indifferenza e caratteraccio, che Mikhail era riuscito a smussare come un caterpillar. Era bastato un unico colpo secco ed ero crollata.

Non avevo idea di quanto tempo trascorse, ma quando rientrai nella villa, trovai quasi tutta la famiglia riunita al tavolo ed i miei occhi lucidi non passarono inosservati ai tre uomini seduti, così come a tutti gli altri commensali.

"Ti ho cercata tutto il pomeriggio." Mikhail mi parlò con serietà ed io scossi la testa con un sorriso triste. "Dov'eri?"

"Ero in giardino." Deglutii e sorrisi ancora. "Avevo bisogno di un po' di tempo per me."

L'espressione di Mikhail si sgretolò e per un istante fui certa di scorgere del dolore, ma poi la mia attenzione si focalizzò su Lilrose, che non aveva smesso di studiarmi.

"Ho bisogno di una seduta."

Le posate di Andrej caddero sul piatto, ma non me ne curai, non quando l'espressione di Lilrose si addolcì e si illuminò di comprensione.

Malizia |THE NY RUSSIAN MAFIA #3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora