Dimitri

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La sala era davanti a me. Era mia. Finalmente, dopo anni, forse qualche secolo, la sala del trono mi apparteneva.
Il trono mi accoglieva, nonostante fosse privo di rivestimenti in tessuto o di velluto, rivestimenti che mi avrebbero facilitato l'atto di stare seduto rigidamente, con la schiena dritta, lo sguardo puntato sul fondo della sala, sulle porte che avrebbero permesso l'entrata, a distanza di pochi minuti da quel momento, di Rowena.
Presi un respiro profondo, cercando di trattenere il rumore che questo avrebbe provocato, e cercando di mascherare il movimento del mio petto, che si alzava e si abbassava.
Non é consentito, ad un re, mostrare segni di debolezza.
Nemmeno l'agitazione di stare per compiere l'atto piú pericoloso che avrei mai compiuto. O, almeno, cosí pensavo. Non sapevo esattamente a cosa tutto questo avrebbe portato, ma avrei provato ad immaginarlo. Avrei dovuto farlo, per salvaguardare il mio popolo, che, ora, mi stava guardando, dalla platea della sala, in attesa che si compisse giustizia nei miei confronti, ma anche nei confronti di tutti loro. Alcune di loro avevano perso persone a loro care: guardie che si erano sacrificate per me, per il loro re. Vite che avrei preferito risparmiare, vite per cui mi sarei sacrificato io stesso. Vite che non avevo potuto conoscere. Vite che non sarebbero dovute intervenire nelle mie questioni personali. Ma mi sarei dovuto abituare: essere re significava anche questo. Avrei perso tutta la mia vita privata. Per il mio popolo, per quelle persone che mi avevano già salvato dalla morte una volta e che io non avrei mai potuto ringraziare in altro modo, se non offrendo la mia stessa vita per loro. E io ero deciso a riuscirci.
Il mio braccio di mosse, sul bracciolo di legno, anch'esso troppo duro per essere comodo. Ero stanco di dover sopportare tutta quella tensione, tutto il dolore e l'odio che avevo provato per Rowena fino a quel momento. No, l'avrei vista morire, davanti ai miei occhi. Avrei voluto che anche Lilith fosse lí a guardare il suo passato svanire dalla sua mente, dalla mente di Reina. Reina sarebbe scomparsa da lei. E Lilith sarebbe stata mia. Questa volta, fino a quando mi fosse stato concesso.
Non molto.
Socchiusi gli occhi e corrugai la fronte, sentendo il cuore stringersi. Cercai di mantenere l'aspetto di un re determinato e pericoloso, ma il pensiero della morte di Lilith per mano mia mi faceva perdere tutta la forza che avevo riacquistato nelle ultime cinque o sei ore, grazie al sangue che avevo bevuto e che, in quel momento, mi riempiva le vene.
Non ora, ricordai a me stesso.
Il pensiero del sangue fresco mi faceva ancora ribollire di desiderio, un desiderio estremo e spietato, che mi avrebbe spinto a tutto, pur di assaggiarne ancora qualche goccia. Avevo sete.
Strinsi i braccioli del grande trono su cui sedevo, fino a far diventare le nocche doloranti.
Concentrati. Presto sarà tutto finito.
Sentivo quasi i battiti del mio cuore echeggiare in tutta la sala, piena di persone, che attendevano il mio passo decisivo. La fine di tutta quella sofferenza.
Nessuno osava parlare. Il silenzio mi riempiva la mente, le braccia, tutto me stesso. Lasciai da parte il me sentimentale, per un momento. Non avevo bisogno che delirasse, in mezzo a tanto sconforto e tanta solitudine, costituita da silenzi e segreti. Speravo solo che Rowena non decidesse di rivelarlo di fronte a tutto il mio nuovo popolo.
Non ora. Non ora che ho bisogno di loro, del loro appoggio, della loro approvazione.
Cominciai a sentire la testa pulsare per il dolore, sia fisico che psicologico.
Non guardai nemmeno una volta il mio popolo. Non era quello il momento per mostrarmi. Non era quello il loro momento. Guardavo solo le guardie a presidio di quella stessa porta da cui ero entrato io, poco prima, sperando che mi sorprendessero nel farmi scoprire che era già giunto il momento di porre fine a tutto questo, a tutto quest'insopportabile dolore che mi attanagliava il petto ed il cuore.
Fatelo smettere.
Passarono alcuni secondi di completo silenzio. Anche nella mia mente niente parlava. Eravamo tutti in trepida attesa.
Dopodiché, alcuni lenti ed inesorabili secondi, finalmente, le guardie agirono. Aprirono le grandi porte.
Mi alzai velocemente in piedi, quasi involontariamente: il momento era arrivato.
Sentii arrivare Rowena prima ancora di vederla. Il tintinnio delle catene che sbattevano e venivano trascinate per terra era inconfondibile.
Poi, comparvero le prime due guardie. Alte, rigide, lo sguardo determinato e la postura particolarmente composta. Avevano abbandonato l'armatura, lasciando il posto ad un completo piú formale ed adatto all'occasione.
Poi, la vidi. Rowena.
Non mi guardó. Non lo fece nemmeno per un secondo. Guardava a terra, tenendo le mani, incatenate da catene con spine d'argento, abbassate, quasi come se le tenesse in grembo. Era l'immagine di una donna ferita, quasi l'immagine di una vittima.
Man mano che Rowena attraversava la sala, diretta al luogo dove sarebbe avvenuta la sua esecuzione, davanti al mio trono, le persone in sala si giravano a guardarla, curiose di scoprire chi fosse stato, chi potesse essere cosí potente, chi era il mio piú grande nemico, che aveva attentato alla mia stessa vita. Forse, qualcuno si ritrovó sorpreso o persino deluso dallo scoprire che questo, in realtà, era una ragazza, una semplice donna. Una donna perfida, spietata e crudele, pronta a tutto, pur di realizzare i propri scopi. Ma, allo stesso tempo, determinata quanto lo ero io.
Le guardie che seguivano Rowena tenevano i fili delle sue catene, come se fosse un cane rabbioso, da dover domare e tener sotto controllo.
Troppo tardi.
Il cammino di Rowena fu lungo e straziante.
Trattenni un sorriso carico di disprezzo: anche da prigioniera, Rowena stava tentando di ottenere l'appoggio di un popolo che non l'avrebbe mai aiutata, non dopo quello che lei aveva fatto al suo vero re. Ma ci provava. Questo glielo riconoscevo. Tentava di fare leva sui sentimenti della folla, di convincerla dell'ingiustizia che lei stava subendo e che io stavo commettendo.
Nonostante l'ormai decaduta regina dei licantropi non mi stesse guardando, non potei fare a meno di rivolgere a Rowena uno sguardo beffardo, il simbolo della mia ormai inesorabile vittoria su di lei.
Come se avesse capito il messaggio che le stavo inviando, come se qualcuno le avesse detto ció che stavo facendo, come se stessi già pregustando il sapore della vittoria nella mia bocca, lei alzò lo sguardo, incrociando il mio. E mi stupì.
Nel suo sguardo, non c'era dolore, non c'era rabbia, non c'era supplica, non c'era rimpianto. Lo sguardo di Rowena era uno sguardo determinato e trionfante, uno sguardo di sfida. Proprio come il mio.

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