Al

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Al nacque a Narita, in Giappone.
Non ebbe mai un posto da chiamare casa, sia perchè i suoi si spostavano di continuo, sia perché la famiglia in cui era nato, non era una famiglia normale.
Beh di normale, la vita di Al, non aveva niente.

La società da cui proveniva era come un mondo parallelo.
Una comunità con leggi tutte sue, che si dice fossero state tramandate dai cinque fondatori del Mondo Sommerso.
Un mondo di streghe, di vampiri, di lupi mannari, di demoni, di innominabili e di draghi, ma che nulla avevano a che fare con quelli dei film o delle storie dei mortali.
Lo stesso Al era un esempio vivente di come l'uomo avesse ideato delle figure completamente sbagliate degli appartenenti al Mondo Sommerso.

Faceva parte della comunità dei draghi, ma più che una semplice comunità, erano un vero e proprio impero.
Forse una delle specie più influenti del loro mondo.

Suo padre era uno degli uomini più potenti.
La sua famiglia era una delle più importanti. Venivano considerati i fondatori della loro specie, la stirpe dalla quale era nato tutto, la famiglia in cui scorreva il sangue puro.

Ciò che li rendeva potenti, temuti da tutti, era il loro aspetto comune, molto simile ai mortali. Quei mortali a cui risucchiavano l'anima per vivere, come se fossero il loro dessert preferito.
Avevano il corpo di un umano, abitudini simili, ma ali grandi che potevano nascondere a loro piacimento, e occhi che li rendevano diversi.

Quegli occhi che Emma in quel momento guardava incantata, ma che erano capaci d'uccidere.

Poteva far provare dolore, far contorcere il corpo delle vittime, come se mille lame infuocate si infilzassero nella carne viva e tutto ciò solo con uno sguardo.
Potevano obbligare la mente a pensarli di continuo, senza riuscire a fare altro, se non logorarti l'anima.
Ma la cosa più brutta che potevano fare, che ad Al venivano i brividi solo al pensiero, era la loro capacità di intromettersi nei sogni della gente.
Nel momento in cui la mente perde ogni barriera, nel momento in cui l'uomo è più vulnerabile, loro attaccavano.
Entravano in quei mondi di sogni, creati dalla mente della vittima e davano l'inizio alla loro magia, che di magico aveva poco.

Li facevano soffrire, li facevano arrivare ad un passo dalla morte senza mai lasciarli morire veramente.
Si risvegliavano pieni di sudore e brividi, con il fiato corto e il terrore che scorreva al posto del sangue.
Era così che gli tormentavano l'anima prima di appropriarsene.
Li facevano arrivare all'esasperazione, facendogli vivere ogni notte, ogni volta che chiudevano gli occhi, la loro morte come se fosse realtà.
Li perseguitavano di incubi, finchè un giorno esasperati non si sarebbero uccisi.

Al però era diverso, era uno di quelli che la sua gente chiamava: traditori.

Aveva sempre odiato la sua vera natura, il suo futuro dettato da scelte non sue e regole ideate da suo padre, che più che un padre era un dittatore.
Si richiudeva in camera sua da quando ne aveva memoria, da quando aveva iniziato a capire ciò che la sua famiglia faceva per vivere.

Si nascondeva e lèggeva libri di storie infinite, cercando di scappare da quella realtà fin troppo crudele.

Si rinchiudeva cercando di smettere d'ascoltare quelle urla strazianti, che riempivano la sua immensa casa, con la pura di poter essere la prossima vittima.
Aveva vissuto con il terrore del tempo, con il terrore del suo diciottesimo compleanno.
Perchè nella sua comunità, a diciotto anni, non si diventa solo maggiorenni ma si perde anche l'ultimo pezzo che ti rende mortale, che ti aggrappa a questo mondo: l'anima.

Mentre i personaggi dei suoi libri che diventavano maggiorenni, festeggiavano con feste immemorabili, la sua specie doveva uccidere per la prima volta.
Come un rito di iniziazione.
Da lì in poi ogni cosa cambiava.
La mente ragionava da predatore e per vivere dovevi continuare ad uccidere.
La voglia di morte diventava la parte più profonda e importante di te.

Nella sua vita aveva sempre saputo che prima o poi avrebbe dovuto prendere una decisione, una scelta troppo grande per un semplice diciottenne, ma che forse nemmeno a settant'anni sarebbe riuscito a fare a cuor leggero.
Nella sua specie giungeva il momento in cui tutti avrebbero dovuto decidere se essere la vittima o l'assassino.

Ma quella decisione Al non l'aveva mai voluta prendere.
Era scappato nella notte del suo compleanno, guardando per l'ultima volta gli occhi di sua madre, che in fondo, aveva sempre saputo che sarebbe andato via.
Che sarebbe scappato.
Perchè lei era come lui, non aveva scelto quella vita perché ne era convinta, ma solo perché non voleva essere la vittima.

Ma se la madre lo comprendeva, il padre non accettava repliche.
Lo torturava di giorno quando non gli obbediva e a volte gli faceva visita anche nei sogni.
In essi lo torturava, lo faceva arrivare al limite senza mai però ucciderlo, facendolo arrivare a desiderare la morte più di ogni altra cosa.

Ma come in ogni buona storia, nella vita di Al, nulla funzionava nel verso giusto, e anche se ci provava i suoi poteri su di lui non avevano effetto.
Perciò l'unica cosa che gli rimase fu la fuga.
Scappare e rinnegare per sempre se stesso, odiandosi fino a che avrebbe respirato.

Arrivò in quell'istituto per caso, senza un vero scopo. Entrò nella mente del personale psichiatrico e li convinse che aveva bisogno di stare lì.
Non sapeva bene nemmeno lui, perché fra tutti i reparti, avesse scelto proprio quello.
Forse perché in loro si ritrovava. Con gente che aveva tentato il suicidio, che odiava la vita quanto la odiava lui.

Ma erano ormai due anni che era lì, e sentiva che era il momento di muoversi, di spostarsi ancora, in modo che suo padre non lo avrebbe mai trovato.
O così almeno pensava, ma la lettera del suo imminente matrimonio, non aveva fatto altro che convincerlo che, poteva provarci, ma avrebbe sempre fallito.
Non sarebbe mai riuscito a scappare da suo padre.
Non sarebbe mai riuscito a scappare da se stesso.

Stava per andarsene, il giorno in cui Emma entrò in quel grande portone per la terapia di gruppo.
Sarebbe stato il suo ultimo giorno in quell'istituto, prima di far dimenticare a tutti della sua esistenza e scomparire nel nulla.

Ma quella ragazza aveva qualcosa, qualcosa che lo incuriosiva, che la rendeva diversa, unica. Qualcosa che lo fece restare senza sapere bene il perché.

Alternava giorni in cui lo incuriosiva a giorni in cui non capire perché fosse così diversa, lo rendeva nervoso, fino a strillare contro, cose che non avrebbe mai voluto dirle.

Era come se avesse diretto tutto l'odio che aveva per se stesso contro di lei.
Come se avesse preso tutta la sua rabbia e frustrazione e l'avesse riversata su quella ragazza dagli occhi freddi e l'anima pura, in quella ragazza che pensava molto, ma viveva troppo poco.

E fu quando quella ragazza apatica non si spostò dal suo raggio, d'odio che si perse a guardarla.
A guardarla veramente.
Quando vide che ne la sua rabbia, ne l'abbandono del padre riuscissero a toccarla.
Si fermò, per la prima volta dopo anni, ad osservare qualcuno con interesse.
Come affascinato dalla sua incapacità di provare amore, e la sua indifferenza nel provare solo dolore.

ApatiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora