31.

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epilogo.

Il sole carezzava dolcemente un paesaggio addormentato, passando le proprie lunghe e sottili, fine dita attraverso i fili d'erba di un parco vuoto, tra le chiazze di umidità su mura abbandonate, sulle tende bianche, quasi trasparenti, appese dinnanzi una finestra.
Allungava egli gli occhi oltre queste, sfiorava il parquet che componeva il pavimento. Tracciava un paio di graffi, proseguiva a sguardo basso quella strada composta di attimi vissuti, istanti ormai morti. Un singolo raggio riusciva a superare quegl'ostacoli, e si posava sui piedi di un letto.

Questo era sfatto, occupato, caldo.

Un piccolo corpo era stretto tra braccia possenti ed ambrate, le sue lunghe dita afferravano della stoffa come fosse l'unica fonte di vita nell'universo. I respiri erano in qualche modo coordinati, lenti nel loro complesso.
Il cuscino faceva da tela ad un dipinto vistoso, composto di ciocche scure e chiare, bianche e nere, accostate a scompigliati ricci color pece.
Un profilo mascolino, dai lineamenti decisi, nascondeva il proprio naso in quest'ultimi, aspirandone il profumo come ossigeno idilliaco e puro. Gli occhi permanevano chiusi, ignari, il sonno tranquillo.
Appoggiato sul suo petto giaceva il secondo protagonista, avvolto in un tepore quieto ed accogliente. Era vigile, rispetto al primo, ma comunque troppo assopito per reagire dinnanzi qualsiasi cosa.

Quella era una mattina di novembre, insolitamente soleggiata.
Una mattina in cui Bokuto ed Akaashi avevano deciso di prendere una pausa dal mondo, dallo scorrere disinteressato e ritmico del tempo, dell'intera esistenza umana.

Si illudevano di poter riprendere fiato, grandi della vittoria che solo loro due, personalmente, erano riusciti a strappare dalle mani del fato più egoista.

Il respiro del corvino proseguiva, tranquillo ed ininterrotto, quasi esistendo con una nota di beffardaggine.

In un angolo della stanza stavano due zaini abbandonati, sporchi lievemente d'erba sul fondo. Accanto a loro, una sacca contenente un lenzuolo a quadri rossi era stata gettata sul pavimento, nella fretta.
Erano quelli i ricordi della giornata precedentemente passata, spesa tra i prati della periferia, sfruttando un pic-nic come appuntamento.

Bokuto aveva promesso la normalità dell'amore a Keiji, e di conseguenza aveva agito. Piccole dimostrazioni d'affetto, innocue e dolci nel quotidiano, appuntamenti pieni d'imbarazzo sfociante successivamente in risate divertite e gote arrossate.

Il sole che lento cala su due mani intrecciate, tra carezze sfiorate e lievi affezioni.
La schiena di Keiji fermamente posata sul petto di Kōtarō, lui immerso in un silenzio talmente innaturale ed insolito da dargli la stessa emozione di un regalo inaspettato. Il riccio leggeva, solitamente, circondato da quel profumo così caratteristico.

Passarono l'estate assieme: tra feste serali, gioventù fresca e sabbia tra le dita.
Scoprirono entrambi quanto l'alba fosse bella riflessa sullacqua delloceano, e come quel silenzio tipicamente mattutino li avvolgesse con una dolcezza generosa.
L'acqua era calda di mattina, le onde basse ma non assenti. Carezzavano la pelle come un padre affettuoso.
La quiete aveva il sopravvento, al punto da far socchiudere gli occhi al corvino e prendere un calmo respiro. Il tutto prima che Bokuto non iniziasse a lamentarsi per esser stato punto da una medusa, urlacchiando e correndo immediatamente fuori dall'acqua.
Akaashi non negò di aver riso, immediatamente seguendo quel tornado del proprio ragazzo.

Nonostante la felicità ed il benessere derivante da quella appena nata relazione, l'Hanahaki non era comunque passata inosservata.
Ignorando le primissime settimane, durante le quali l'espulsione della malattia era ancora in corso, ed in cui troppo spesso Kōtarō si era svegliato nel cuore della notte per lo squillare del telefono, con un Akaashi tremante in chiamata, subito dopo colpi di tosse dolorosi quanto lieti, la malattia aveva lasciato segni indelebili sulla pelle candida del riccio. Erano come scottature, segni di pelle sciolta sotto il peso di una morte sublimamente vicina.

Nessuno parlava delle cicatrici di Akaashi, era una regola non scritta.
Per quanto esse parzialmente rappresentassero l'enorme sentimento che univa i due giovani, Keiji non poteva che desiderare sparissero, poiché sempre gli ricordavano come quel sentimento che tanto lo nutriva e lasciava senza fiato, l'avesse quasi ucciso.

Nessuno poteva toccare quelle cicatrici.
Erano più lucide e chiare, spiccavano come tatuaggi. Talvolta si arrossavano.
Solo Bokuto poteva sfiorarle, carezzarle, baciarle. Era quasi una silenziosa scusa, uno spalmare miele sulle ferite di un cuore piccolo piccolo.
«Mi piacciono le tue fossette.» sussurrava ogni tanto, strusciando il naso su quella pelle.
«Rimangono qui in ogni caso.» era la mera risposta.

Con il tempo la situazione andò migliorando.
Un po' per il caldo, un po' per rifiuto di una costante sottomissione ad una malattia troppo antipatica, il corvino riprese ad indossare maglie sbracciate e capi più leggeri. A ciò conseguì una lenta accettazione delle stesse, un progressivo comprendere che, odiandole o amandole, esse sarebbero permaste su quella pelle chiara.
Ed Akaashi era stanco di dover sempre sentirsi schiacciato da qualcosa.

Così erano arrivati ai giorni odierni, sempre un po' più forti e più innamorati l'un dell'altro.

Il sole sfiorava le spalle ambrate di un Kōtarō dormiente, nudo sotto le lenzuola.
Keiji lo guardava, in un religioso e follemente perso silenzio. Una penna spiccava tra le sue dita, accoppiata ad un foglio bianco da un lato.

"Caro Bokuto-san,
dovrei chiederti come stai. Dovrei comportarmi come al solito, ignorando le circostanze. Dovrei far finta di nulla, prepararmi alla mia partenza e stare in silenzio.

Te lo aspettavi?

Il sole è nato un'altra mattina, e l'ho visto.
Mi hai sorriso ancora, ed io ho sorriso a mia volta.

"Soffriresti di più?"
Sei felice?

Io più mi nutro di te, più ti sento al mio fianco, più sento di poter urlare: sì."

FINE.

Sweet death. /BokuAka/Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora