13.

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cuore scheggiato.

Nei giorni che seguirono, Akaashi non riuscì a lasciare la propria stanza, se non per andare in bagno.
Le sue condizioni peggioravano a vista d'occhio, e stava divenendo sempre più complicato coprire quelle piccole piantine che nascevano in modo gentile quanto dolorante sulla sua pelle, sfoggiando una bellezza mortale.
Il prurito che sentiva, ormai giustificato dallo spuntare dei fiori, sembrava andare e venire ad intermittenza, e ciò sollevò notevolmente il corvino. Tuttavia, nei momenti in cui, silenziosamente, faceva la propria brutale comparsa, il povero ragazzo non sapeva come trattenersi.
Stressato dalla situazione, dall'andamento della malattia e dalla lontananza dai suoi amici, si ritrovò non poche volte ad applicare eccesiva forza nel tentativo di grattare via quel fastidio, scalfendosi la pelle e creando cicatrici che sperava sarebbero sparite col tempo.
Le tre ferite che Konoha gli aveva fasciato avevano lasciato tre segni biancastri e lucidi, che dubitava sarebbero mai svaniti.
Non che gli restasse molto, comunque.

L'umore del riccio, a causa di più fattori, si faceva sempre più oscuro e discendente, spingendolo spesso a passare ore sul letto, lo sguardo fisso sul soffitto, le palpebre pesanti che non si chiudevano, la voglia di urlare che non veniva colmata, il respiro che continuava lento.
Aveva pensato più volte di dare proprie notizie a qualcuno, ma a parte un misero messaggio rivolto a Konoha nulla aveva scritto a nessuno.
Non era sicuro qualcuno l'avesse cercato, e non voleva toccare nemmeno minimamente il cellulare.

Approfittando dell'assenza della madre, la quale era andata a lavorare, quella mattina Keiji si disfece ufficialmente dei vestiti incriminati, lavandovi via il sangue, cercando di eliminare a sua volta nella propria mente le scene di quel pomeriggio.
Mai si era esposto a tal punto con qualcuno, e si sentiva come nudo sotto una miriade di riflettori.

Non ricordò come passò il tempo: se tossendo fiori ora sporchi di sangue, fissando quel dettaglio tanto interessante sul proprio muro o dormendo.
Seppe solo di esser stato "risvegliato" dalla voce gentile di sua madre, che entrava quietamente nella sua stanza mentre lui sedeva dinnanzi la propria scrivania, un'aurea preoccupata ad alloggiargli negli occhi blu mare.
«Ehi tesoro, sono a casa.» sussurrò, come se un tono di voce più alto avrebbe potuto romperlo in mille frammenti.
L'interpellato non parlò, sentendo però il battito aumentare, insolitamente, ed un profumo diffondersi nell'aria.
Un profumo virile e forte, ma comunque delicato, come una farfalla in volo.
Girando lo sguardo verso le spalle della donna, il volto di Bokuto faceva timidamente capitolino.
«Bokuto-kun è venuto a trovarti, dato che non rispondevi alle sue chiamate. L'ho incontrato qui fuori.» lo introdusse lei, mentre il cuore del minore si stringeva.
Non sapeva se esserne estremamente felice o estremamente triste, se correre ad abbracciarlo o stargli il più lontano possibile.
Si limitò ad annuire lentamente, puntando i propri occhi in quelli dorati del maggiore. Gli parve di tonare a respirare.
«Vi lascio soli, allora.» salutò la donna, scambiando uno sguardo con Kōtarō, che però fu perso dal riccio.
Il più grande si chiuse la porta alle spalle.

Portava la tuta con cui solitamente faceva allenamento, aveva i capelli dritti e dirompenti come suo solito e teneva le mani dietro la schiena.
Si avvicinò quieto, sedendosi sul letto leggermente sfatto del minore, mentre lui l'osservava dalla sedia posta dinnanzi la scrivania.
«Stai bene, Akaashi?» chiese all'improvviso, rompendo quel silenzio denso creatasi. La pronuncia così perfetta del suo nome fece capire con facilità all'interpellato la preoccupazione dell'altro.
«Respiro ancora, Bokuto-san.» Ma non a lungo.
«Sopravvivere non equivale a stare bene.» borbottò.
«Dipende.» Non "sto bene" da tanto, in tal caso.
Bokuto osservò il minore per qualche secondo: notava perfettamente il suo petto che si alzava ed abbassava più velocemente rispetto a quando parlava con la madre, nonostante la sua espressione non fosse mutata minimamente, le sue dita che si scalfivano a vicenda, il modo in cui teneva le braccia tese affinché rimanessero completamente coperte dalla felpa scura che portava.
Sentì un tuffo al cuore.
«Cosa succede? Perché non sei venuto a scuola, né agli allenamenti? Perché non mi hai detto nulla?» chiese quindi velocemente, studiando ogni minimo millimetro del volto stanco di lui.
Egli scosse debolmente il capo, prendendo un respiro profondo. L'odore del più grande pareva aver riempito paradisiacamente quella piccola stanza.
«È solo stanchezza.» si giustificò, sentendo il cuore stringersi quando notò l'espressione ferita del ragazzo dai capelli bicolore.
«Perché non mi hai avvisato?» borbottò, lo sguardo basso.
«Non credevo ce ne fosse il bisogno.» Non credevo avresti notato la mia assenza fino a questo punto.
La gola del corvino prese a chiudersi lentamente, l'ossigeno sembrava non arrivare più ai polmoni.
«Cos'hai, Akaashi?» la voce di Bokuto si fece avanti nuovamente «Non sembri te stesso.»
Il minore non rispose, troppo impegnato a contenersi ed a controllare il proprio corpo.
Si sentiva disorientato, come se non riuscisse a governare i propri movimenti, lenti ed imprecisi.
Gli sembrava di essere ubriaco: la mente pareva scollegata dal resto del corpo, e percepiva la testa come avvolta in una bolla, nella quale il profumo di lui, ora amplificato, si spingeva sino al centro della mente del più piccolo.
Non capiva cosa stesse accadendo, e ne era allarmato. Allarmato quanto eccessivamente inebriato per reagire.
Poteva sentire il sangue scorrergli nelle vene, accarezzandone le pareti, qualcuno di quegli odiosi fiori sbocciargli all'interno, dei petali candidamente sanguinari sfiorargli la pelle.
Panico e pace si mischiarono.
La sua espressione rimase neutra, ma nel fondo dei suoi occhi scorreva un fiume in piena. 

Sweet death. /BokuAka/Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora