17.

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rassegnazione.

In un primo momento, dopo le ultime parole scambiate tra Akaashi e Bokuto, quest'ultimo volle urlare dalla frustrazione, poi sparire, poi mettere in pausa il tempo per cercare di capirci qualcosa.
Cosa voleva dire che i due non sarebbero più potuti esser amici come un tempo?
Egli non ebbe nemmeno il tempo di ripetersi la frase a mente, che il più piccolo si stava già allontanando scompostamente e velocemente, quasi istigando il più grande a seguirlo. Non seppe mai cosa lo spinse a non farlo.
Keiji sembrava star richiedendo disperatamente un po' d'aria, come se quella vicinanza con Kōtarō l'avesse iniziato a soffocare.
Lui rimase quasi scioccato da quella repentina azione, sentendo un senso di confusione e delusione crescergli nel petto. Perché si era allontanato così? E, soprattutto, perché non gli aveva risposto?
Che qualcosa non stesse andando bene era più che ovvio da qualsiasi punto di vista: il corvino non partecipava più agli allenamenti, aveva preso ad ignorarlo sempre di più, fino a distaccarsi completamente da colui che considerava, un tempo, il suo migliore amico...
Quelle parole, che tanto l'avevano messo in crisi, pronunciate da Kuroo gli tornarono in mente come un lampo, ma Bokuto le scacciò velocemente: il problema, in quel momento, non erano i suoi sentimenti, veritieri o meno che fossero, bensì la situazione del più piccolo.
Con un brivido che gli saliva lungo la spina dorsale, il ragazzo dagli occhi dorati sentì un moto d'ansia passargli nello stomaco. Akaashi lo stava volutamente evitando? Stava facendo tutto ciò per allontanarsi il più possibile da lui? Era stato troppo appiccicoso, ed aveva stufato definitivamente il ricciolino?

Quel giorno, Bokuto non lo rincorse.
La mattina dopo, non lo aspettò.
A ricreazione, non lo andò a trovare, né chiese a nessuno se l'avessero visto, come aveva fatto in precedenza, per assicurarsi stesse bene.
Da quel momento, decise di non importunarlo più, sperando in questo modo di donargli pace.

Due giorni e sette ore.
Erano passati esattamente due giorni e sette ore da quell'ultimo tragico dialogo avvenuto tra i ragazzi, dal quale non si erano neppure più visti da lontano.
Kōtarō non sapeva se il corvino stesse andando a scuola o meno, e non si curò di scoprirlo. Era per quel suo appiccicume che l'altro si era allontanato, si ripeteva. Dal canto suo, poi, nemmeno Keiji pareva cercarlo, dunque quelle sue supposizioni non parevano tanto infondate.
Nonostante l'ancora lontano inverno, il tempo sembrava più scuro e triste, come conscio di qualcosa di tragicamente sfiorito. Tirava un lieve vento, ed il sole era coperto da scurissimi nuvoloni grigi. Erano le undici di mattina, ma sembrava fosse notte.
«Bo, che guardi?» una voce distrasse l'interpellato, che sostava col busto allungato sul banco e lo sguardo rivolto fuori dalla finestra della classe.
«Pensi pioverà?» domandò lui, non muovendo i propri occhi dal vetro. La seconda voce sbuffò un sospiro.
«Non ne ho idea, ma spero di no. Non ho portato un ombrello.»
Bokuto emise un versetto frustrato, esclamando quindi un:
«Nemmeno io!»
I due si trovavano all'interno della loro classe, mezza vuota per via della corrente ricreazione. Solitamente, il gufo avrebbe speso tale tempo fuori dall'aula, girando per la scuola e verso quella classe, ma si era ripromesso di non "cedere ad alcuna tentazione" pur di lasciare al riccio il proprio spazio.
Il suo compagno, Nishida, che adesso aveva ottenuto l'attenzione del giocatore, cambiò discorso, tirando fuori un argomento banale e tranquillo mentre andava a sedersi dinnanzi il banco dell'Ace.
La conversazione andò avanti per relativamente poco tempo, fino a che non fu interrotta dall'arrivo di un terzo ragazzo, dai capelli biondo platino e gli occhi scuri come pece, il quale si unì ai due con un'espressione stupita in volto.
«Non avete idea di cosa ho appena sentito!» esordì, prendendo una sedia ed accomodandosi di fianco al giocatore di pallavolo, mentre il secondo liceale lo guardava confuso. Quei tre avevano sempre fatto un gruppetto molto socievole, sin dal primo giorno in cui si erano conosciuti.
«Gira voce...» iniziò, avvicinando il capo ai due compagni e parlando con un tono di voce molto basso «che qui a scuola ci sia un ragazzo con l'Hanahaki.»
Gli interlocutori lo guardarono piatti, ambo con un'espressione confusa.
«La che?» domandò alla fine Kōtarō.
«La malattia di Hanahaki.» spiegò il secondo «Una patologia mortale dovuta all'amore non corrisposto. Quella dei fiori.»
«Oh. Credevo si trattasse di un'invenzione da fumetti.» borbottò il pallavolista, facendo scuotere il capo al biondino.
«E invece! Dicono sia stata presa da uno della classe 2-6.» aggiunse, ripetendo tutti quei "pettegolezzi" che aveva precedentemente intercettato. Quel preciso numero di classe fece drizzare le orecchie a Bokuto: un compagno di classe di Akaashi..?
«Sinceramente, Sato-kun, non vedo cosa vi sia di così scandaloso. Povero lui, se questa voce è vera.» borbottò Nishida.
«La cosa che ha "fatto scandalo", però, non è stata la malattia in sé...» continuò, avendo ora completamente l'attenzione dei due liceali nelle proprie mani. Lo sguardo di Bokuto aveva una luce differente. «...bensì colui che l'ha presa: mi hanno detto che quel tipo era incapace di mostrare emozioni, ed è considerato un po' strambo; della serie, quel tipo di persona che ha tre espressioni contate e due amici.»

Sweet death. /BokuAka/Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora