23.

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ultimo sguardo.

"Quella giornata era iniziata in modo strano.
Tutto appariva regolare, quotidiano, tutto tranne il luogo in cui Bokuto sostava: a scuola.
Non ricordava di esservisi recato, né tantomeno di aver già passato le prime due ore, fatto sta che tutto gli suonava normale.
Aveva la consapevolezza di essere in classe, ma non il ricordo di esserci arrivato.
La professoressa spiegava rivolgendo le spalle alla scolaresca, gli alunni scrivevano rigidi sui propri quaderni. Nessuno era distratto, o girato, tranne Kōtarō: egli guardava fuori dalla finestra, il cielo era surrealmente luminoso. Diede la colpa ai propri occhi per essersi eccessivamente abituati al buio della propria stanza.
Cosa l'aveva spinto ad uscirvi, a proposito?
Sentiva una peculiare sensazione sul fondo del proprio stomaco, simile all'ansia tipicamente percepita prima di un'importante partita. Non sapeva cosa il proprio subconscio stesse aspettato con cotanta eccitazione, ma gli pareva importante. Non si fece domande.

Fuori dalla scuola, oltre quel chiarissimo vetro della finestra, un paio di persone dai volti non dettagliati passavano noncuranti, vivendo la loro tranquilla e piatta vita. Un paio portavano delle buste della spesa, alcune dei mazzi di fiori. Passò una macchina giallo evidenziatore, con delle strisce blu. Gli ricordò il tipico pallone da pallavolo.
Riusciva a sentire qualcuno parlare, la professoressa, senza capire cosa stesse dicendo. Pensò di aver fatto troppe assenze.
Posò un gomito sul banco, così sorreggendo il proprio capo con una mano. In cielo non c'era nuvola alcuna, ed il sole non si vedeva. Passò un gufo, gli parve normale.

La campanella suonò, rompendo quel flusso di pensieri in cui Bokuto era accidentalmente caduto.
I suoi compagni di classe presero ad alzarsi, scambiando parole tra di loro come di norma. Alcuni tirarono fuori delle merende, piccoli o più grandi snack.
Ricreazione, si disse il pallavolista.
Cercò di ricordare se quel giorno avesse allenamento o meno. Nulla gli venne in mente.
I soliti due suoi compagni di classe, con cui usava spendere intere ricreazioni parlando del più e del meno, non lo guardarono nemmeno in volto, comportandosi come se non esistesse. Kōtarō li giustificò credendoli ancora offesi per il modo in cui aveva risposto a Sato. Non si sentiva di scusarsi.
Non aveva portato con sé nulla da mangiare, ma non sentiva l'appetito.
Sbuffando tra sé e sé ripose i libri precedentemente "utilizzati" all'interno della propria cartella, prendendo quelli che gli sarebbero serviti successivamente. Matematica.
Guardandosi attorno tranquillo, non sapeva cosa fare.
Sentì la propria gola chiudersi quando pensò di andare a trovare Akaashi, impossibilitato dall'andare a scuola a causa del maggiore stesso.
Mi chiedo cosa stia facendo, e come stia. Si disse.
Percepì i propri occhi bruciare, i polpastrelli formicolare; non aveva intenzione di fare una scenata davanti a tutti, non avrebbe risolto niente né aiutato nessuno.
Le voci circa la condizione del riccio si erano inesorabilmente diffuse nella scuola, seppur nessuno ne stesse parlando in quel momento, nella classe del gufo. Egli non poté evitare di preoccuparsi per il corvino, cui era sempre stato estremamente riservato, in qualsiasi occasione.
Tristemente, emise uno sbuffetto:
"come se gli avessi lasciato la possibilità di tornare a scuola, un giorno."
Nascose il viso nelle proprie mani, stropicciandosi gli occhi. Incrociò le braccia sul banco, affondando il proprio volto tra esse. Voleva sparire.

Improvvisamente, qualcuno gli bussò sulla spalla, quieto. Alzando lo sguardo, Bokuto trovò uno dei suoi compagni di classe al suo fianco.
«C'è un ragazzo del secondo anno che ti cerca.» gli disse, allontanandosi quindi con tranquillità e calma.
Il cuore del ragazzo dagli occhi dorati fece una capriola, riaquietandosi subito dopo. Immediatamente si alzò, uscendo dalla classe con un passo lento e contenuto, quasi cauto nel non illudersi.
Fece un respiro profondo e prolungato prima di scavalcare l'uscio della propria classe. I suoi occhi incontrarono quelli di un secondo ragazzo: i capelli corvini, ricci e spettinati, gli occhi turchesi freddamente vivi ed allungati, la divisa perfettamente stirata e le mani costantemente intrecciate tra di loro.
Akaashi Keiji, in tutta la sua naturale e disinvolta bellezza, sostava vicino il muro, aspettando qualcuno. Aspettando Bokuto.
Quest'ultimo spalancò gli occhi, sentendo il proprio cuore accelerare repentinamente; un'ondata di adrenalina e gioia lo colpì, paralizzandolo allo stesso tempo: cosa ci faceva Akaashi lì? Quand'era uscito dall'ospedale? Perché sembrava stesse perfettamente bene?
Il senso di colpa e la felicità nel vederlo paralizzarono il pallavolista fermamente. Keiji lo notò, avvicinandosi di qualche passo senza cambiare minimamente espressione.
«Buongiorno, Bokuto-san.» disse, con quel suo solito tono pacato e controllato. Gli era mancato come l'aria, ma allo stesso tempo parve scalfire profondamente il cuore del più grande.
«A-Akaashi...» quest'ultimo rispose, sentendo i propri occhi riempirsi di lacrime. Scattò davanti, stringendo il minore tra le proprie forti braccia, mentre aspirava nuovamente il suo profumo.
Non importavano ora i sentimenti del più grande, la situazione in cui si trovavano, gli sguardi della gente attorno a loro. No, l'unica cosa che contava era la presenza del riccio.
Il quale, però, ricambiò l'abbraccio titubante.
Bokuto prese un respiro profondo, cercando di darsi un contegno, ed allontanò il proprio corpo da quello dell'altro, non staccando le mani dalle sue spalle. Erano calde, ed aveva bisogno di sentirlo vicino.
Alcune lacrime ribelli ancora sfuggivano dai suoi occhi, facendolo tremare.
«Ero così spaventato» confessò, triando su col naso.
Keiji allungò con lentezza una mano, asciugando quelle gocce salate:
«Non dovevo venire a trovarti, Bokuto-san?» domandò, riabbassando l'arto «Ricordo questa fosse una nostra abitudine prima dell'Hanahaki, usava suscitarmi gioia. È risultato inopportuno, ora, invece?»
L'interpellato non nascose un'espressione di pura confusione, specchiandosi in quelle pupille gelidamente fredde: elle parevano vuote, empie, prive di quella spettacolare scintilla che brillava sul loro fondo, come un diamante, il più bel diamante dell'intero mondo, incastonato in un fondale marino oscuro ed illuminato da un singolo raggio di sole.
«Cosa...cosa stai dicendo, Akaashi?» chiese quindi lui, stringendo istintivamente quelle fragili spalle.
«Oh, è forse risultata inopportuna questa mia domanda, invece?» l'espressione del corvino rimaneva neutra, il tono piatto. Sembrava una macchina. «È dall'operazione che ho un po' di difficoltà nel regolare le mie reazioni nei vari-»
«Operazione?» Bokuto lo interruppe, percependo il proprio cuore tremare. A mente, sperò di starsi sbagliando.
«Certo, Bokuto-san.» rispose invece tranquillissimo Keiji, posando le proprie mani su quelle del più grande. «Potresti non stringere così tanto? Mi stai facendo male.»
Con gli occhi strabuzzati e le labbra socchiuse, Kōtarō lasciò cadere le braccia ai suoi fianchi, sbattendo più volte le palpebre per evitare di scoppiare in un pianto isterico. La voce non riuscì più ad uscire dalla sua bocca.
Akaashi continuò, neutro:
«Visto il peggioramento dell'Hanahaki, è stato ritenuto opportuno effettuare l'operazione di estrazione della malattia. In cambio, però, ho perso l'abilità di provare emozioni, dunque ho un po' di difficoltà nel quotidiano, specialmente nell'interagire con gli altri.»
Le mani di Kōtarō, a questo punto, tremavano.
«Cosa...cosa vuol dire?» chiese, sentendo il proprio respiro accelerare. Troppe informazioni in troppo poco tempo.
Era così che era andata a finire, dunque? Aveva brutalmente privato Akaashi di un futuro normale, un futuro felice?
Perché il petto gli bruciava così tanto?

Sweet death. /BokuAka/Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora