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La strada che lasci ti ha tolto il respiro

T'illudi sia vita nuova ma è solo un sospiro.

Amati un po' più forte, se riesci,

abbraccia i tuoi sogni e. alla fine, cresci.


Trenta minuti di auto, quattro ore di treno, un'ora e mezza di autobus e venticinque minuti a piedi.

Questa la distanza che mi separava da casa, dalla mia vecchia vita.

Davanti a me i collegi universitari di Urbino. Lì avrei passato i prossimi tre anni, come minimo.

A vederli così, dall'esterno, mettevano un po' soggezione: quell'ammasso gigantesco di ferro e cemento non trasmetteva proprio la tipica idea di calore e accoglienza. Ad ogni modo ero lì, perciò era inutile indugiare ancora.

Scesi la grande scalinata che dalla strada portava all'ingresso principale, trascinandomi dietro la mia grossa valigia e ignorando quel senso di angoscia con cui, ormai, ero abituata a convivere. Con qualche difficoltà aprii l'enorme e pesante portone di vetro con una mano, mentre con l'altra spinsi dentro l'ingombrante bagaglio.

Fuori l'aria era gelida, nonostante fosse solo settembre sembrava pieno inverno, lì dentro invece il caldo era soffocante, ma lo sbalzo di temperatura non mi disturbò affatto, anzi, fu un sollievo. Le mie mani erano ghiacciate.

Mi guardai intorno, alla ricerca di qualcuno che potesse indicarmi dove andare. L'atrio era spazioso, c'erano molti divani di finta pelle blu vicino alle pareti bianche. Due ragazze erano impegnate in una fitta conversazione davanti ad una macchinetta del caffè, nemmeno si accorsero della mia presenza.

Tra le tante porte e portoni chiusi che contornavano la stanza semicircolare, ce n'era una aperta, forse la più piccola. Mi avvicinai con passo incerto. Era un ufficio con una minuscola targhetta argentata vicino alla porta, con su scritto PORTINERIA. Dentro una signora sulla cinquantina stava parlando al telefono, quando si accorse di me accennò un sorriso e mi fece segno di entrare.

La stanza era davvero molto piccola e troppo, troppo calda. Le pareti erano quasi interamente tappezzate di vecchi faldoni, forse era una specie di archivio di documenti e scartoffie varie.

«Posso aiutarti?», chiese la signora, con tono gentile, dopo aver chiuso la conversazione.

«Sì, per favore, sto cercando la mia stanza. Sono Giulia Rinaldi».

La donna aveva un caschetto di capelli biondi cotonati, di un biondo chiarissimo, indossava un paio di occhiali dal bordo rosso acceso, con dei brillantini incastonati alle estremità. Somigliavano ad una maschera di carnevale. Corrucciò un po' le labbra sottili, che aveva cercato di rimpolpare con un rossetto della stessa tonalità di rosso della montatura degli occhiali, ed estrasse un mazzetto di fogli gialli da sotto una pila di libri e opuscoli. Tra una lista di nomi cercò il mio. Le sue dita cicciottelle scorrevano veloci sul foglio, le unghie lunghe e curate erano dipinte con uno smalto brillante, ovviamente rosso anche quello. Improvvisamente la sua mano si fermò in un punto preciso della lista di nomi e sorrise soddisfatta.

«Giulia Rinaldi. Eccolo qua: stanza 86! Ti accompagno subito», sfoderò un ampio sorriso mettendo in bella mostra una schiera di denti bianchissimi.

Era un mistero, per me, come riuscisse a districarsi in quella confusione. Il tavolo a cui era seduta, che per quanto piccolo riusciva comunque ad occupare quasi tutta la stanza, era letteralmente sommerso di fogli, libri, volantini e cartacce.

Prese una chiave da un cassetto e me la porse.

«Fai attenzione a non perderla, è la chiave della tua stanza. Seguimi, ti mostro dov'è», e così dicendo uscì a testa alta, con passo deciso ed io la seguii.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora