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Dopo appena due minuti di attesa avevo già i nervi a pezzi e il cuore in agitazione.

«Ti va un altro caffè?», chiesi ad Anna prima dell'inizio della lezione, mentre la gente iniziava già ad arrivare.

«Sì, ti faccio compagnia».

Lasciammo lì le nostre cose per tenere occupati i posti e salimmo al terzo piano, dove c'era la mia amata macchinetta del caffè. In realtà ero già abbastanza nervosa per aggiungere altra caffeina ma rimanere seduta in aula, ad aspettare il suo arrivo, avrebbe solo peggiorato le cose.

Ci attardammo un po' lungo i corridoi della facoltà, parlando degli esami, dei professori, dei nostri compagni di corso, di qualsiasi cosa pur di perdere un po' di tempo e distrarmi.

Quando tornammo in aula, però, ancora lui non c'era, ed iniziò ad invadermi una sensazione diversa dalla tensione legata all'idea di rivederlo: la delusione di non poterlo rivedere. Cercai di calmarmi, in fondo mi aveva avvisata che sarebbe arrivato in ritardo.

Prendemmo posto mentre il nostro insegnante già si schiariva la voce per iniziare la lezione.

«Bene ragazzi, sedetevi pure che iniziamo», quella fu, più o meno, l'unica frase che la mia testa riuscì a percepire.

Continuai ad attendere con ansia il suo arrivo, controllando la porta ogni dieci secondi, sussultando ad ogni studente che la varcava in ritardo, ma di lui nessuna traccia.

Il mio cuore, che aveva esordito battendo all'impazzata, rallentava mano a mano che iniziava a rendersi conto che lui non sarebbe venuto, lasciando posto ad una calma carica di delusione. Ma fu solo quando la lezione finì e il professore ci salutò soddisfatto, che io mi rassegnai veramente al fatto, ormai inequivocabile, che mi avesse presa in giro.

In un certo senso quello era il nostro primo appuntamento e lui mi aveva dato buca.

«Giulia, andiamo a mangiare?», chiese Anna, costringendomi a riacquistare un po' di lucidità.

Mangiare? Io avevo solo voglia di restare sola.

«Ti dispiace se oggi non vengo a mensa? Ho voglia di studiare un po' e poi non ho molta fame», il che, per me, non era una novità.

«Va bene, come vuoi. Torniamo ai collegi allora?».

«No, tu vai pure, io mi fermo qui in biblioteca a studiare».

Non c'era niente che potesse farmi stare bene come una stanza carica di libri. In quel momento era l'unica cosa che mi avrebbe tirato un po' su di morale.

«Giulia, per favore, devi mangiare qualcosa».

«Più tardi, te lo prometto», cercai di sorridere e di apparire credibile.

Mi fissò perplessa per qualche secondo.

«Va bene, allora ci vediamo più tardi ai collegi». Non m'illudevo, di certo, che avesse creduto alle mie parole: mi conosceva abbastanza bene da capire quando mentivo ancora prima che lo facessi. Non insisteva mai troppo per farmi mangiare, ma lo sapevo che anche lei era preoccupata per me, lo vedevo dal modo in cui mi guardava.

«A dopo», dissi, felice di non dovermi più sforzare di apparire serena e lentamente raggiunsi la biblioteca, al piano sotterraneo.

Era quasi deserta, c'erano solo un paio di studenti dell'ultimo anno indaffarati a preparare la tesi, ma erano talmente presi e concentrati che nemmeno si accorsero di me.

Una ragazza teneva disperatamente le mani tra i capelli, mentre cercava di interpretare l'enorme libro che aveva davanti. Una ruga le solcava tutta la fronte, chissà da quanto tempo aveva sul volto quell'espressione corrucciata?

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora