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«Dove mi porti?», ero seduta sulla sua auto, aggrappata al sedile per restare in equilibrio, mentre la testa continuava a girare. Cercavo di apparire serena, ma nemmeno la mia voce riusciva ad essere stabile.

«E' una sorpresa». Anche la sua voce aveva qualcosa di strano, era spenta.

Dovevo trovare il modo di affrontare l'argomento, non sapevo come fare. Non puoi semplicemente dire al ragazzo che frequenti da pochi giorni, senti, tesoro, fai uso di droghe, per caso? Non è così facile.

Eppure qualcosa mi sarei dovuta inventare e alla svelta, prima di impazzire completamente.

Dieci minuti dopo eravamo già fermi, nel parcheggio davanti casa sua.

«Hai dimenticato qualcosa?», gli chiesi.

«No, questa è la nostra meta».

«Ah», fu tutto ciò che riuscii a dire, mentre lentamente scendevo dall'auto, attenta a non barcollare e richiudevo la portiera.

Lui mi aspettava, la mano tesa verso di me perché gli dessi la mia, negli occhi azzurri una profonda tristezza. I suoi occhi erano stati freddi, accesi, felici, ansiosi, molto spesso assenti e anche tristi a volte, ma mai così. Quella tristezza era nuova per me, mi faceva quasi male.

Accennai un sorriso forzato e gli diedi la mano, lui la strinse nella sua, calda, ed insieme entrammo nel palazzo dove Luca viveva.

«Voglio farti vedere dove abito».

«Va bene».

Ero nervosa. Non era la prima volta che restavamo soli, ma non nell'intimità di casa sua.

Luca aprì il portone di legno dell'edificio, per fortuna era così cavaliere nei miei confronti, perché la forza che mi era rimasta in corpo mi serviva già tutta per restare in piedi. Aprire quel portone mi sarebbe stato impossibile.

L'atrio della palazzina era spazioso, anonimo. Le pareti erano di un giallo sbiadito, l'intonaco era scrostato in molti punti. Doveva essere una costruzione molto vecchia. Prendemmo l'ascensore, fino al quinto piano e ci fermammo in fondo al corridoio stretto di fronte ad un portone in legno.

Con una mano estrasse dalla tasca del giaccone un mazzo di chiavi, l'altra era ancora stretta nella mia. Aprì la porta ed entrò facendomi strada.

Quando accese le luci restai senza parole. Il divario tra l'esterno e l'interno di quell'appartamento era incredibile. Le pareti erano di un bianco immacolato, l'intonaco perfetto, l'arredamento era moderno, essenziale ma vistosamente di lusso. C'erano bellissimi quadri su tutte le pareti, lampade fatte di tanti piccoli cristalli e quella stanza enorme era solo l'ingresso.

«Questa è casa mia», disse, ma la parola casa mi sembrò poco. Quella era una reggia.

«È davvero molto bella», ma anche quell'aggettivo non mi sembrò adatto.

Luca lasciò la mia mano per togliersi il cappotto e lo appese ad un maestoso appendiabiti di legno scuro levigato, sembrava antico, non c'entrava niente con il resto dell'arredamento ma, sorprendentemente, non stonava affatto. Era perfetto, come tutto il resto.

Anch'io lo imitai e mi tolsi il giaccone, appendendolo nello stesso punto, ma dovetti appoggiarmi al muro perché, nell'istante esatto in cui mi sollevai sulle punte per raggiungere il gancio più alto, tutta la stanza iniziò a girare. Per fortuna Luca non stava guardando.

«Vieni, accomodati», mi invitò entrando in un'altra stanza. Lo seguii in quella che doveva essere la sala: era maestosa. Restai immobile sulla porta mentre il mio sguardo percorreva i grandi quadri alle pareti. Erano immagini di città: Parigi, New York, Roma e altri posti che non conoscevo, ma tutti bellissimi.

Nella parete alla mia sinistra c'era un gigantesco camino, il fuoco era acceso e illuminava la stanza di una luce rossastra, romantica.

Davanti al camino un tappeto bianco e vicino alcuni divani di pelle, anche quelli dello stesso colore.

Attaccato alla parete che avevo di fronte c'era un televisore a schermo piatto gigante. Al centro dei tre divani, un tavolino di cristallo. Era un'armonica combinazione tra moderno e antico, sembrava una di quelle immagini che si trovano sui depliant degli arredamenti di lusso. Ricordavo che spesso, quando sfogliavo i cataloghi di pubblicità che arrivavano per posta, mi soffermavo a guardare quei mobili stupendi, quelle immagini meravigliose e pensavo che in una casa così non si potesse essere infelici.

Vivere in una casa così era come vivere in un sogno.

Tuttavia, quando feci un passo avanti e voltai lo sguardo alla mia destra, verso la parte restante di quella stanza che da sola era poco più piccola della mia intera casa, il sogno diventò un incubo.

Al centro esatto dell'altra metà della sala c'era un tavolo apparecchiato per due: bicchieri di cristallo, posate d'argento, un centrotavola di rose rosse e perfino una candela. Luca si avvicinò al tavolo e l'accese.

«Mi permetti di invitarti a cena?», chiese con un sorriso appena accennato e facendomi segno con la mano di accomodarmi.

Mi avvicinai al tavolo con l'espressione, ne ero certa, di un condannato a morte.

«Avevi detto di non saper cucinare», dissi con tono quasi accusatorio, mentre mi sedevo al posto che Luca mi aveva indicato.

«Infatti, non so cucinare. Per questo prima di venirti a prendere sono passato in rosticceria. Ho comprato diverse cose, spero ti piacciano» e così dicendo scoprì alcuni vassoi sul tavolo. C'erano tartine, patate al forno, verdure e carne alla griglia, polpette e perfino un vassoio colmo di frutta.

Solo a vederla, tutta quella roba, mi dava la nausea e il profumo che fuoriuscì dai vassoi, mi diede il colpo di grazia.

«Forse ho un po' esagerato, ma non conosco i tuoi gusti, quindi ho preso cose diverse, per essere sicuro di scegliere almeno qualcosa che sia di tuo gradimento».

Ero andata lì con l'intenzione di chiedergli dei chiarimenti, per parlare di lui, dei suoi problemi, per essere rassicurata, invece mi trovavo davanti ai miei di problemi e dovevo trovare il modo di parlargliene o di scappare via, ma entrambe le cose mi sembravano impossibili.

Non era facile, avevo accettato di ammettere con me stessa di avere un problema e mi era già costata molta fatica, ammetterlo con qualcun'altro era molto più difficile, soprattutto con lui, perciò feci un ultimo tentativo di evitare il discorso.

«Senti Luca», dissi a voce bassa, i miei occhi fissi sul piatto vuoto davanti a me, incapace di mentirgli guardandolo nei suoi, «scusa, davvero, è stata un'idea molto carina quella di invitarmi a cena, ma non lo sapevo, perciò ho già cenato. Non ti offendere, ma non ho molta fame».

Giocherellavo nervosamente con un lembo di stoffa della tovaglia bianca, quindi non vidi la sua espressione, ed ero così nervosa che nemmeno lo sentii avvicinarsi o, forse, ero talmente presa da ciò che avevo dentro, da non accorgermi di ciò che succedeva fuori.

Sentii solo la presa ferrea delle sue mani sulle mie braccia, con uno strattone mi sollevò dalla sedia, il mio corpo troppo debole non fece la minima resistenza, si lasciò trascinare dall'altra parte della stanza, davanti ad una parete quasi interamente ricoperta da una superficie a specchio. Lì si fermò: con una mano mi teneva stretta per un polso, con l'altro braccio mi bloccava da dietro, cingendomi la vita. Non riuscivo a guardalo in faccia, mi teneva rivolta verso la parete, così cercai, istintivamente, il suo volto nel riflesso dello specchio. La sua espressione era una maschera di durezza, i suoi occhi erano accesi di rabbia, cattivi.

Non mi aveva mai guardata con quello sguardo.

Mi sentii lacerata.

Non capivo il perché di quella reazione, ero terrorizzata, tremavo.

«Guarda!», mi ordinò mentre stringeva di più la presa. Seguii la direzione dei suoi occhi nello specchio e arrivai al mio viso.

L'immagine che mi trovai davanti mi sconvolse.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora