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«Sei al primo anno?», chiesi per cercare di pensare ad altro, in modo da riuscire a calmarmi.

«In un certo senso».

A guardarlo sembrava più grande di me, ma frequentavamo gli stessi corsi.

«Cosa significa?».

«Diciamo che sono rimasto indietro con gli esami, quindi è un po' come se fossi al primo anno dato che devo ancora dare gli esami del primo», sorrise un po' imbarazzato del suo ragionamento.

«Quanti anni hai?».

«Ventiquattro».

Feci un rapido calcolo, in effetti a ventiquattro anni avrebbe dovuto essere all'ultimo anno, era molto indietro con gli esami, ma non dissi niente.

«Tu? Quanti anni hai?».

«Diciannove. Sono al primo anno, in tutti i sensi».

Lui sorrise, era tremendamente bello.

«Parlami un po' di te», dissi.

«Cosa vuoi sapere?», chiese con un tono improvvisamente freddo.

«Non saprei. Tutto. Sappiamo così poco l'uno dell'altra».

«Beh, io di te so molte cose».

«Ad esempio?».

Sembrò rifletterci una frazione di secondo, come se fosse indeciso se parlare o meno, poi prese coraggio.

«So che sei una ragazza molto dolce, un po' introversa, solitaria. So che ti piace studiare, che diventi rossa quando sei in imbarazzo, che ti mordi le labbra quando sei nervosa. So che sei onesta perché i tuoi occhi sono sinceri. So che vivi ai collegi, ma che ti manca casa tua, la tua famiglia. So che, per qualche assurda ragione, ti piace stare con me e tutto questo mi basta. È così importante per te sapere altro?».

Le sue parole mi avevano lasciato senza fiato, aveva pronunciato l'ultima frase quasi con rabbia, ma forse era solo tristezza mascherata da una punta, non troppo velata, di freddezza. Io lo sapevo bene perché era lo stesso identico modo in cui reagivo io: quando dovevo nascondere la tristezza la mascheravo da arroganza. Era un modo per difendermi.

«Non voglio sapere niente che tu non voglia dirmi - era chiaro che c'erano cose della sua vita di cui non voleva parlarmi, ed io volevo rispettare la sua volontà - scoprirò chi sei giorno dopo giorno, se me ne darai l'occasione». Cercai di fargli capire che non volevo opprimerlo, né mettergli fretta.

Il suo viso, invece di rilassarsi, si contrasse in una smorfia di angoscia.

«E se ciò che sono non fosse ciò che credi io sia? Se ciò che sono non dovesse piacerti?», il tono di voce sembrava quasi arrabbiato, ma non c'era ombra di cattiveria nei suoi occhi, solo dolore.

«Impossibile», risposi sicura, e, in quel momento, lo credevo davvero. Non riuscivo a pensare a qualcosa che avrebbe potuto farmi cambiare idea su di lui.

«Possiamo parlare d'altro?», chiese distogliendo lo sguardo dal mio.

Sembrava nervoso.

«Ad esempio?», volevo assecondarlo perché tornasse ad essere felice, come pochi minuti prima.

«Ti piace la musica?», il suo sguardo era ancora tormentato.

«Sì - fui sollevata all'idea che tra noi non fosse piombato il silenzio, lieta che volesse ancora parlare con me - la musica mi piace moltissimo. A volte passo pomeriggi interi ad ascoltarla, è una di quelle cose che riesce a calmarmi quando tutto il resto va male». Mi interruppi, temendo di aver rivelato troppo di me, della mia imbarazzante fragilità.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora