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La vita ai collegi riprese normalmente, con il suo ritmo familiare e rassicurante.

Anna tornò ad essere la mia amica di sempre: allegra, vitale, l'Anna che mi svegliava alle sei di mattina per andare a correre, che mi faceva fare tardi a lezione, che la notte mi teneva sveglia a parlare per ore, che mi costringeva ad uscire tutti i fine settimana.

L'unica cosa diversa era che ora si perdeva in lunghe telefonate con mio fratello, il che non era un male perché mi dava più tempo per studiare.

Superai brillantemente tutti gli esami del primo semestre, ero fiera di me. Anche Anna recuperò alcuni esami che le erano rimasti indietro dall'anno precedente. Le ore che, non senza un certo sforzo, l'avevo costretta a dedicare allo studio, le erano servite. Ora potevo concederle un po' di tregua, dato che alla sessione d'esame successiva mancavano ancora alcuni mesi. Potevamo rilassarci e limitarci a seguire le lezioni.

Da quando Anna era entrata a far parte della mia vita non mi sentivo più sola, il futuro mi terrorizzava molto meno e la notte riuscivo a dormire senza essere costretta a combattere contro i miei incubi, anzi, spesso facevo dei bei sogni. La mattina mi svegliavo serena e riposata, come non succedeva da molto tempo.

Ed ero proprio nel bel mezzo di uno di quei sogni - c'era il mare, la sabbia, un sole caldo e luminoso - quando il suono della sveglia mi riportò bruscamente alla realtà.

Ancora stordita, impiegai un po' a capire cosa ci fosse di strano, di diverso dal solito. Poi realizzai che erano mesi che non sentivo la sveglia, di solito ci pensava Anna a tirarmi giù dal letto, prendendo a calci la porta.

Meno male, evidentemente non si era svegliata e, per una mattina, niente maratona sotto l'acqua gelida. Era febbraio, fuori l'asfalto era ghiacciato e c'erano ancora mucchietti di neve accatastati ai bordi delle strade dall'ultima nevicata.

Mi stiracchiai sotto le coperte, era una bella sensazione potersi risvegliare con calma, dando al corpo tutto il tempo per uscire dal torpore e riprendere energia.

Approfittai delle due ore che mancavano all'inizio della prima lezione della giornata, per farmi una doccia calda.

Scesi in sala mensa per cercare Anna, ma non la trovai.

Chissà cosa poteva esserle successo. Riempii una bella tazza di caffè, lo sorseggiai con calma.

Mi avvicinai al vassoio colmo di ogni tipo immaginabile di biscotti, ne afferrai un paio e, con riluttanza, mi costrinsi a mandarli giù, combattendo contro i sensi di colpa.

Decisi di andare a cercare la mia mia migliore amica in camera sua, altrimenti mi avrebbe fatto fare tardi anche quella mattina. Bussai alla porta della sua stanza ma non aprì nessuno.

Bussai di nuovo, questa volta più forte. Sentii un tonfo sordo, pochi secondi e la porta si aprì. Anna era ancora in pigiama, con gli occhi mezzi chiusi e l'espressione stralunata.

«Giulia, sei tu?».

«Sì, chi pensavi che fosse? Cos' hai fatto, ti sei fatta male?», si stava massaggiando il sedere con una smorfia dolorante.

«Sono caduta dal letto».

«Com'hai fatto a cadere dal letto?».

«Mi hai spaventata, ti sembra quello il modo di bussare?», disse facendomi segno di entrare.

«Ho bussato delicatamente, ma non sentivi».

«Allora hai deciso di buttare giù la porta?».

«La solita esagerata. Cosa dovrei dire, io, del modo in cui mi tiri giù dal letto ogni singola mattina? Per una volta che sono io a svegliarti, fai tutto questo casino?».

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora