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Ho sempre pensato che gli specchi devono averli inventati per rendere le persone infelici.
In piedi, nella penombra della mia camera da letto, contemplavo immobile e inorridita ciò che restava del mio corpo.
L'immagine che vedevo era solo lo spettro di ciò che ero un tempo e appariva ancora più inquietante alla luce fredda dell'unica lampada accesa, quella sul mio comodino.
A stento riconoscevo quel viso, che era sempre il mio ma, allo stesso tempo, non lo era più. Aveva un colore strano: un pallido avorio con insane sfumature giallastre. Era troppo scavato, gli zigomi marcati ed eccessivamente sporgenti. Gli occhi scuri, cerchiati da pesanti occhiaie violacee, sembravano assenti, spenti. Le labbra apparivano troppo grandi, sproporzionate.
Erano sempre i miei occhi, il mio naso, le mie labbra, ma su una superficie nuova, sbagliata.
Anche tutto il resto non mi apparteneva più. Non completamente, almeno. Non come prima. Le braccia ossute sembravano esageratamente lunghe, le costole erano ben visibili, una ad una, su tutto il torace, le anche sporgevano in modo innaturale, come volessero uscire dalla pelle. Le gambe scheletriche non avevano più nemmeno quel minimo di muscolatura che permettesse di distinguere la coscia dal polpaccio.
Perfino i capelli sembravano opachi, come se si fossero stancati di fare da contorno ad un corpo come il mio. Scendevano ribelli lungo le spalle e la schiena, con ciocche irregolari di un color castano tanto spento da sembrare quasi nero.

Non è che non vedessi la realtà: riuscivo a capire ciò che ero diventata. Eppure, in qualche parte malata della mia testa, continuavo a considerarmi grassa. Era come se l'immagine entrasse nei miei occhi in modo reale, ma arrivasse al cervello deformata. Vedevo perfettamente le ossa, ma non le percepivo come sintomo di una magrezza estrema, anzi, era l'esatto contrario: la loro sporgenza m'infastidiva, volevo che sparissero.
Quel bacino troppo grande mi faceva sentire enorme.
Odiavo il mio corpo con tutta me stessa.
Strinsi forte i pugni, fino a conficcare le unghie nella pelle, mentre le braccia restarono inerti lungo il corpo, come se non volessero reagire. Sentivo crescere una rabbia immensa dentro, per tutto ciò che ero, per tutto quello che non riuscivo ad essere.

Non c'era un momento preciso della mia vita in cui avevo deciso di smettere di mangiare. Probabilmente non l'avevo deciso, almeno non razionalmente. Era successo e basta, né avrei saputo spiegare il motivo di quell'improvviso rifiuto per il cibo.
Forse era stata la morte di mio padre con quell'insopportabile vuoto che aveva lasciato, a rompere il già precario equilibrio della mia esistenza.
Forse mia madre, troppo apprensiva, protettiva, a volte soffocante.
Forse era stato quando il ragazzo che mi piaceva dalla prima elementare si era messo con la ragazza più carina del liceo o, più probabilmente, era stato rendermi conto che lui nemmeno conoscesse il mio nome.
Forse cercavo solo qualcuno a cui dare la colpa del mio essere fragile, quando l'unica persona da ritenere responsabile ero io.

Eppure, se scavavo a fondo nella mia mente, riuscivo a ricordare un tempo in cui tutto sembrava perfetto, in cui ero stata persino felice. Un tempo in cui il solo problema che avevo era la scuola e anche quella, in fondo, mi piaceva.
Era il tempo in cui ero ancora bambina e mio padre mi raccontava le favole per farmi addormentare.
Il tempo in cui, ancora, in quelle favole ci credevo e pensavo esistessero davvero le fate, le principesse, i regni incantati e i principi azzurri con tanto di cavallo bianco e armatura splendente.
Quel tempo era finito quando lui se n'era andato e delle favole erano rimasti solo gli orchi e le streghe cattive, perché la favola si era trasformata in realtà e la realtà faceva schifo.

Dicono che quando si hanno problemi con il cibo non ci si renda conto di averli. Forse per me era stato così all'inizio, quando mi ostinavo, caparbia, a negare l'evidenza, ma a quel punto me ne rendevo conto eccome, solo che non faceva la minima differenza perché, in ogni caso, non sapevo come uscirne.
La bilancia era diventata la mia migliore amica e, allo stesso tempo, la mia peggiore nemica.
Su quel dannato arnese avevo perso tutto, anche il sorriso. Per lei - che era la mia unica ossessione - piangevo, maledicevo me stessa e il mondo, calpestavo i miei sogni e, soprattutto, mentivo come non avevo mai fatto prima. Come non avrei mai voluto fare.
Non volevo essere una di quelle persone autolesioniste che si creano problemi per poi piangersi addosso, troppo deboli per riuscire ad aiutarsi da sole, troppo orgogliose per chiedere aiuto, quindi, per darmi l'illusione di essere forte, mi costringevo a guardare il mio corpo seminudo allo specchio ogni sera, per ore, finché l'immagine riflessa mi dava la nausea, nella speranza che la consapevolezza di ciò che ero, potesse darmi un motivo per uscire dal nulla in cui ero sprofondata.
Una speranza vana, in realtà, perché più mi fermavo ad osservarmi, più il rifiuto di me stessa mi spingeva a desiderare di scomparire.
Era chiaro, perciò, che l'effetto che ottenevo era proprio l'opposto di quello che desideravo e peggiorava solo le cose, eppure continuavo a farlo perché era l'unico modo che avessi per illudermi di stare facendo qualcosa di utile per me stessa. Ed io avevo bisogno d'illusioni. Le illusioni erano la cosa più reale che possedessi in quel momento.
Anche quella sera, come tutte le altre sere, ad un certo punto mi arresi all'evidenza e infilai il pigiama, così da coprire quello spettacolo orrendo e nasconderlo almeno ai miei occhi.
Spensi la lampada, nel buio totale era più facile fingere di non esistere, poi andai a dormire, con la determinazione assoluta di cambiare le cose.

Ma le cose non cambiano se non sei tu a farlo e le cose, per me, non cambiavano mai.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora