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I giorni seguenti raccolsi un po' delle mie cose, tra cui pigiama, spazzolino, qualche vestito di ricambio e mi trasferii nell'appartamento di Luca.

Avevo deciso di aiutarlo ad uscire da quello che tutti chiamano tunnel della droga.

Non so perché lo chiamino così. Quando sei in un tunnel non vedi dove stai andando, con la droga invece lo sai perfettamente. In un tunnel c'è sempre una via di uscita, il tunnel ti porta da qualche parte, la droga no. Alla fine del tunnel della droga non c'è una via d'uscita, non c'è la luce, non c'è niente.

L'unico modo che avevo per aiutarlo era controllarlo.

L'unico modo per controllarlo era vivere a contatto con lui ventiquattro ore al giorno.

Iniziai a seguirlo ovunque, sempre, giorno e notte. Lo lasciavo solo esclusivamente per andare in bagno e, anche in quel caso, cercavo di fare in modo che non ci restasse troppo tempo.

Andavamo a lezione insieme, a pranzo e cena eravamo insieme, controllavo le sue chiamate, i suoi movimenti.

Restavo con lui, in attesa dei sintomi di una crisi di astinenza che non si presentava mai.

Non sapevo, di preciso, cosa aspettarmi, ma sapevo che quando sarebbe arrivata sarebbe stata forte, inconfondibile, inevitabile.

Invece, niente.

Luca era sempre lo stesso.

A volte il suo sguardo era assente, distante, altre volte era sereno, felice, normale.

Era il Luca di sempre, quello che mi aveva fatto perdere la testa.

Quello che, evidentemente, mentiva ed era bravo a farlo.

«Luca, ora basta!», sbottai ad un certo punto, incapace di continuare a fingere che tutto andasse bene.

Lui distolse lo sguardo dallo schermo del televisore per rivolgerlo verso di me. L'espressione confusa e innocente di un bambino che non capisce il motivo di un rimprovero o, forse, finge di non capire.

«Devi dirmi la verità, tu non hai smesso vero? Stai continuando a fare uso di droghe, stai continuando a prendermi in giro», lo accusai senza tanti giri di parole.

«Perché dici così, Giulia?», nella voce l'innocenza allo stato puro. «Siamo sempre insieme, controlli ogni secondo della mia vita, quando avrei potuto farlo?», il tono da innocente era diventato acido.

«Ti dà fastidio essere controllato?», chiesi io con maggiore comprensione.

«Non mi dà fastidio essere controllato, ma tu mi soffochi», l'acidità nel tono di voce era diventata rabbia.

«Mi dispiace, ma è necessario», cercai di restare calma.

«Necessario per chi? Ti sei trasferita qui senza che ti chiedessi niente, controlli ogni mio piccolo movimento, ci manca solo che inizi a seguirmi anche in bagno», in un gesto d'ira scagliò il telecomando contro il televisore, lo mancò di pochi centimetri e andò a colpire il muro. I pezzi del telecomando rotolarono sul pavimento, insieme alle batterie.

Era la prima volta che lo vedevo perdere la calma, la prima volta che si arrabbiava con me e che mi parlava con quel tono.

Provai il desiderio di scappare via, offesa dalle sue parole così cariche di rancore, ma sapevo che era la cosa peggiore da fare.

Lui mi aveva aiutata, ora spettava a me ricambiare il favore, anche se non voleva.

Mi avvicinai a lui, gli presi le mani tremanti di rabbia tra le mie.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora