Chapter Twentysix

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Chapter Twentysix.

Avevamo tredici anni quando Amy, per la prima volta ci tirò fuori dai guai. Era la notte di Natale e io e Sam avevamo rubato delle caramelle al centro commerciale. Non mi ricordo neanche perchè lo facemmo. Forse perchè non avevamo i soldi per compracele. O magari solo per provare i brividi. Fatto sta che Amy, che al tempo aveva quindici anni, e per cui avevo una mezza cotta

da quando avevo cinque anni, ci difese, al 'Tribunale' del centro commerciale, raccontando che non avevano prove per accusarci, dato che le telelcamere erano spente. E altre cose di questo genere. E dopo trentacinque minuti eravamo fuori da lì. Ora, invece Amy non c'è.

"Dove l'avete presa?"

"Mi appello al quarto emendamento."

"Ragazzino, hai visto troppi film. Nella vita reale, io ti faccio le domande, e tu e la tua bellissima ragazza rispondete. Okay?"

Il distretto di polizia di Boulder, era più una feccia, che altro. Un ammasso di lamiere, in mezzo alle montagne. Ero ammanettato a una sedia, e avevano portato Sam, in un'altra stanza, nelle mie stesse condizioni. Davanti a me, dall'altra parte del tavolo di metallo, un poliziotto girava per la stanza, sfogliando un fascicolo. La mia fedina penale. Non sembrava il grassone che ci aveva ammanettato con le sue mani unte. No, questo era tutt'altro tipo. Sembrava proprio quello che nei film è il polizziotto cattivo. Aveva le braccia muscolose e abbronzate. Portava una maglietta grigia, che faceva risaltare i pettorali, e non aveva meno di quarant'anni. Forzai la presa sulle manette, lacerandomi la pelle. Strinsi forte gli occhi. Un altra fitta alla testa. Dannazione, mi veniva da vomitare.

"Fa male, ragazzino?"

Non avevo ancora spicciato parola. La lingua sembrava fatta di piombo.

Avrei voluto dirgli tutto. Della macchina, del viaggio, del padre di Sam e anche del tumore. Solo, che non ci riuscivo.

"Non vuoi parlare? Bene, vediamo se così funziona." Non feci in tempo a chiedermi che cosa intendesse, che la mia faccia fu scaraventata da tutt'altra parte, e sentii qualcosa di caldo, scivolarmi lungo la guancia, misschiato alle lacrime. Mi aveva tirato un pugno? Era legale?

"Ora, come ti gira ragazzino?"

"Vaffanculo." Sputai più lontanto possibile, e la mia saliva arrivò diretta sul braccio del bestione. Lui si afficino e mi tirò un calcio sugli stinchi, anche quelli legati alla sedia. Una fiume di dolore, risalì lo stomaco, e mi fece vomitare quel poco che avevo mangiato prima. Vomitai sulle scarpe laccate del bestione, che ora erano colorate di liquido bianco, con pezzetti arancioni e verdi.

Le sue iridi si dilatarono e iniziò a torturarsi le pellicina dei pollici.

"Aggressione a pubblico ufficiale. Cinque anni di carcere. Stai tranquillo. Riserveremo lo stesso trattamento anche a quella strafiga della tua tipa. Ora vado. Tu intanto pensa a come vuoi il prossimo pugno. Lurido Inglese."

Disse prima di aprire la pesante porta di ferro, e chiudersela alle spalle.

"Irlandese, figlio di troia."

Sussurrai, prima che la porta venne riaperta. I brividi mi attraversarono il corpo, proprio come la notte di Natale con le caramelle. Ma non era il bestione. No, questo era molto più giovane. Aveva una collana, con il distintivo dell' FBI che pendeva sul petto. Era magro, e sorrideva. Avevo il viso coperto di sangue, e il forte odore di vomito aleggiava nell'aria. Ma lui sorrideva.

"Ciao, sono Mike. Tu?" Disse allungando la mano verso di me, ma la ritrasse subito quando notò cosa aveva fatto il suo collega.

"Scusaci. Ma Finn ha scoperto di essere diventato padre oggi. È nervoso." Spiegò, come se,  un agente che tortura la gente era cosa normale, e facesse parte della quotidiantitá di quel covo di folli.

"Sperate che non faccia questo anche a suo figlio e a sua moglie." Sussurrai io,evitando la domanda che il polizziotto mi aveva rivolto.

"Non sono un agente. Sono uno psicologo." Disse aprendo il fascicolo che il bestione aveva lasciato in precedenza sul tavolo.

"Non mi serve un cazzo di strizzacervelli che mi psicanalizzi il cervello. Sono un ragazzo con un tumore al cervello al quarto stadio, che voleva portare la ragazza che amava a trovare suo padre. E ho rubato una macchina. È un reato?" Chiesi urlando al muro nero davanti a me. Ma mi zittii subito, quando capii cosa avevo detto.

"Bhe in teoria sì. Ma è stata Samantha che mi ha mandato. Vuole che tu faccia ritorno a Baltimora. " Il suo tono di voce era orribilmente allegro, e non capiva che mi aveva ucciso con delle semplici parole. Sam non mi voleva. Ero un intralcio. E aveva ragione. Dopotutto stavo per lasciarla io.

"Oh andiamo! L'Isis sta ivadendo il mondo e voi perdete tempo con due ragazzini?"

Urlai con tutte le forze che avevo. Ero rotto dentro. Ma fuori, non stavo disicuro meglio. Mi sporsi verso lo strizzacervelli, e sentii il metallo duro e freddo, affondare nella carne delle caviglie, facendomi urlare di dolore. Sentii dinuvo il sangue che sfondava le vene, e sgorgava fuori, innaquandomi le scarpe. Non avevo più niente da rigurgitare, ma questo di certo non mi impedì di lasciare sul tavolo una pozza giallogniola di succhi gastrici. L'odore lì dentro era nauseante, e io non ero più in me.

"Sono musulmano." Disse lui, come se non fosse successo niente.

"La prego. Mi lasci andare. Mi sleghi. Mi lasci baciare per l'ultima volta Sam. Mi lasci guardare il suo corpo, e farci l'amore. Mi permetta di amarla un' ultima volta. Perchè poi, non c'è un secondo tempo. Non puoi rimediare. Poi mi può riportare a casa. Potrò morire in pace. Vicino a Mark. Ma ti prego. Non posso andarmene senza essermela impressa nella mente. "

"Mi dispiace."

L'uomo si alza e si avvicina a me. Io scatto in dietro, picchiando la testa sullo schienale della sedia. Sbuffo contrariato e mi lascio slegare. Ho sprecato tutte le mie forze, e ora i miei polsi sono rossi di sangue, come il mio viso, la maglietta e le gambe. Fatico a rimanere in piedi. Arrivo fino alla soglia della porta aperta, dove il bestione e una donna in Tallieur, mi guardano. Crollo in ginocchio e rinizio a piangere.

"Sam. Vi prego. Ditemi dov'è."

Il bestione si abbassa al mio livello.

"Stará meglio senza di te."

Mi tira per il braccio, sporcandosi le mani di sangue. Mi trascina verso l'uscita della centrale.

"Aspettiamo qui. Tra cinque minuti passa il pullman che porta a Chicago. Da lì ti arrangi. Sappiamo entrambi che non tornerai. Anche perchè lei sará giá a San Diego."

Il mio cuore va in pezzi. Ci dividono. Mettono in mezzo una nazione.

"Ma-"

"Zitto. È meglio così." Detto questo se ne va, riapre la porta scorrevole e scompare, lasciandomi in balia delle montagne. Tre minuti dopo arriva un pullman bianco e sopra non c'è nessuno. Mi alzo dal bordo della strada.

"Sam ti amo. Morirò. Ma ti amo." Urlo, anche se so che lei non mi può sentire. So che è l'ultima volta. Quel giorno al centro commerciale sentimmo i Green Day, e io capii di amarla. Fu quel giorno. Mi girai e salii sul pulmann. Era tutto finito. Finito prima di essere iniziato.

Shit! I love youDove le storie prendono vita. Scoprilo ora