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«Lo so» insistette lui. «Lo vedo che stai male e non devi vergognarti.»

Feci spallucce e risposi con voce spezzata.

«Non faccio altro che ripetermi che questo periodo passerà e che tutto andrà meglio, e che io starò bene. È difficile perfino immaginare il domani, è difficile alzarmi la mattina, è difficile lavarmi, muovermi, parlare. Eppure, lo faccio. A volte è come se mi muovessi da sola, senza connettere il cervello» lo psichiatra mi ascoltava, poi alzò severamente un sopracciglio.

«A cosa credi sia dovuta questa tua reazione? Hai dovuto affrontare un evento particolare o è successo all'improvviso?»

«Io...» mi fermai per non far sentire che la mia voce si stava spezzando. «Mi è successa una cosa ma non dovrei sentirmi così, insomma mi guardi. Sono a casa con i miei genitori, va tutto bene e allora perché sto così?»

«Siamo arrivati dove volevo io, tu sei qui e stai combattendo contro questo malessere. Ogni volta che ti svegli, ti lavi, ti muovi, parli anche se non te la senti, ogni volta che lo fai tu stai vincendo. Non sottovalutare lo sforzo che stai facendo, ma non abbandonarti ad esso. Non forzarti se non te la senti, ma non arrenderti, per favore.»

Si avvicinò a me e mi posò una mano sulla spalla, guardandomi negli occhi.

«Sono contento che tu sia riuscita a parlare con me, stai tranquilla che tornerai a stare bene. Non sei impazzita, la tua sanità mentale è oscurata soltanto da forte stress, causando questa depressione transitoria» rimise nella ventiquattrore il suo taccuino, afferrò il suo cappotto indossandolo. «Ti farò avere i farmaci di cui hai bisogno il prima possibile.»

Iniziai la terapia il giorno dopo. Mia madre mi faceva assumere due pillole, un antidepressivo e un ansiolitico che mi rendevano un po' assonnata, mi appannavano i riflessi, ma almeno lenivano l'ansia, dandomi qualche ora di sollievo.

Di pari passo proseguivano anche i colloqui con lo psichiatra, tre volte a settimana.

Era una bella giornata e avevo deciso di rilassarmi nel giardino, di farmi pervadere dalla bellezza dell'ambiente che mi circondava, ma quella calma che stavo provando era solo quella artificiale dei farmaci.

La domestica mi chiamò per rientrare perché lo psichiatra era arrivato per la solita seduta. Mi sentii quasi sollevata, lui era diventato una presenza rassicurante, che in qualche modo sembrava capirmi, aveva a cuore il mio benessere.

«Come ti senti oggi?» mi chiese il medico non appena ci accomodammo nello studio di mio padre.

«Sto bene, oggi sono uscita per la prima volta» socchiusi gli occhi con un sospiro.

«Sono contento che tu sia uscita» disse con un sorriso sincero. «Abbiamo fatto dei progressi e siamo solo alla sesta seduta» constatò sorpreso.

«Mi sto impegnando» risposi tranquillamente.

Le medicine stavano finalmente facendo effetto. Le pillole riuscivano in qualche modo a gestire quell'angoscia perenne che mi faceva sprofondare nella disperazione più cupa. L'ansia era meno intensa, anche i ricordi mi facevano meno paura.

Lo psichiatra mi stava osservando, benevolo e accogliente come sempre. Avevo imparato ad affidarmi a lui come da bambina faceva con la tata: sapevo che non era la mamma ma era più rassicurante, più affettiva.

Non era come i miei genitori che per tutta la mia vita, niente era stato mai abbastanza, niente li aveva mai soddisfatti completamente. Era una continua richiesta di impegnarmi di più, di migliorare, di andare oltre. Una tra le più brave della scuola, borsa di studio e ancora non bastava, non era sufficiente. Niente di quello che facevo era in grado di far comparire su quei visi severi un'espressione di orgoglio per me.

An inconvenient truth || Dylan O'BrienDove le storie prendono vita. Scoprilo ora