An inconvenient truth

54 6 0
                                    

«Cosa ti è successo allora? Perché sei sparita per nove mesi? Perché ad un tratto sei così silenziosa? Se ti fosse successo qualcosa di brutto ce lo avresti fatto sapere in qualche modo e saresti venuta a riprenderci. Perché ti sei arresa così facilmente?» chiese, sporgendosi verso di me per aiutarmi ad alzare del tutto.

«Sono cambiata.»
«Dimmi cosa ti è successo» disse dopo svariati attimi di silenzio.
«Non posso» replicai, evitando il suo sguardo.

«Ti prego, Riley. Dimmi cosa ti è successo, voglio aiutarti!»

«La sera prima della partenza, ho scritto una lettera ai miei genitori dove ho raccontato tutto quello che ho fatto» cominciai, deglutendo amaramente mentre le raccontavo la mia storia.
«Poi cosa è successo?» sussurrò tristemente.
«Adrian pensava volessi togliermi la vita un'altra volta quindi ha raccontato tutto a mia mamma» una lacrima solitaria mi scese lungo la guancia pallida. «Un'ora dopo che avevo lasciato la lettera, qualcuno ha suonato alla mia porta. Era lei in compagnia di due infermieri» sussurrai con un filo di voce.
«Cosa ti hanno fatto, Riley?» chiese la mia amica preoccupata e dispiaciuta allo stesso tempo.
Lydia, non vedendo alcun segno da parte mia di voler proseguire, mi strinse fortemente la mano.

«Mi hanno ricoverata in un istituto psichiatrico sempre qui a Kentwood» le lacrime iniziarono a scivolare sulle guance senza freno. «È stato orribile, Lydia» mi lasciai sfuggire un singhiozzo mentre le lacrime scendevano silenziose.

Lei spalancò la bocca ed i suoi occhi diventarono lucidi nel giro di pochi secondi. Si avvicinò di più a me e mi asciugò le lacrime.
«Sei sempre stata qui» aggiunse lei incredula.

Io annuii piano mentre lei mi stringeva a sé, continuando a scusarsi per come si era comportata con me qualche settimana prima.
«Ho provato a scappare, a chiamarvi ma non ci sono mai riuscita» sussurrai tra i suoi capelli.
«Non importa, ora sei qui» sussurrò Lydia, sciogliendo l'abbraccio.

«Ma non sono più io. Voglio dire, mi sento un'estranea nel mio stesso corpo, sento tutto ora e fa così male» mi passai una mano tra i capelli. «Ho perso tutto e non posso fare niente per recuperare te, Thomas e Dylan.»

«Tu non mi hai persa» mi sorrise dolcemente. «Non avremmo mai dovuto dubitare di te.»

«Desidero non aver mai scritto quella lettera ma al momento mi sembrava una cosa giusta da fare» mormorai io, alzando lo sguardo e puntarlo su di lei.

«Chi sa di questa storia?» chiese poi.

«Quelli del centro di recupero, il mio amico Eric che ho conosciuto all'ospedale, Malia, poi tu» replicai.

«Malia?» chiese stupita la mia amica. «Non ci ha mai detto niente, anzi a fine estate ha cercato Dylan per confessare i suoi sentimenti» aggiunse in seguito.
Lydia rimase per qualche secondo in silenzio, limitandosi a ridacchiare piano. Ci era arrivata da sola al perché Malia era al corrente di quello che mi era successo.
«Ma certo, lei fa l'infermiera all'ospedale psichiatrico» sbottò lei ad un tratto furiosa. «Dylan deve sapere la verità.»

«No» esclamai all'improvviso agitata. «Lui è finalmente felice, non voglio rovinarlo un'altra volta. Sembra innamorato di lei e lei lo tratta come merita» spiegai in seguito ricevendo un'occhiataccia da parte della mia amica.

«Lo sai com'è fatto» disse con tono di voce simile a quello che mi riservava quando mi faceva la predica. «Le persone fanno così, si ubriacano e baciano persone sbagliate. Fanno finta che tutto vada bene, fanno di tutto per distrarsi dai veri sentimenti. Sono capaci di fare qualsiasi cosa pur di non sentire la mancanza di quella persona che le ha ferite» dichiarò ad alta voce.

«Lo sapevi che prima o poi lo avrei fatto soffrire, è successo e non voglio che accada un'altra volta. Starà meglio senza di me» ribadii, accendendomi un'altra sigaretta.

«Non puoi fare finta di niente, ti conosco molto bene e queste sono solo cazzate.»

«Promettimi che non glielo dirai» pronunciai, facendo un tiro di sigaretta.

«Sarà il nostro segreto» affermò dopo attimi di riflessione.

Spensi la sigaretta e, entrambe con un sorriso stampato sulle labbra, entrammo in casa. Andammo nella mia camera e prima di addormentarmi pensai che quell'amicizia che ci legava sarebbe durata per sempre.

Eravamo indistruttibili.

Il mattino dopo ero più stanca che riposata. Con un grosso sbadiglio mi voltai di lato e ritrovai Lydia che stava dormendo.

I suoi occhi, dopo un attimo, si spalancarono ma si era già voltata dall'altra parte, dandomi le spalle.
«Sei inquietante» mi disse lei, coprendosi la testa con il cuscino.

«È domenica, Lydia. Andiamo a fare colazione da Grace» presi a scuoterla dolcemente ricevendo in risposta un gemito strozzato.

«Ti prego, non voglio lasciare il letto, fuori fa freddo» sbuffò lei mentre legavo i capelli in una coda disordinata.

«Ho fame e non ho voglia di cucinare» mormorai, soffocando una risata mentre d'un tratto Lydia si girò verso di me.
«A una sola condizione. Passiamo a prendere Thomas e gli spiegherai tutta la storia!»

Incrociai le gambe sul letto e spostai lo sguardo sulla finestra. Lydia, qualche secondo dopo mi imitò e si mise a sedere, stringendomi la mano.
«Capirà, lo sai che ti vuole bene» la sua stretta si fece più leggera mentre sulle sue labbra comparve un sorriso tirato.

«Lo dirà a Dylan e non voglio rovinare la sua relazione» dissi, scuotendo la testa, gli occhi che diventavano lucidi mentre le mani si chiusero in pugni serrati.
«Non lo dirà a nessuno, lo conosci meglio di me» mi scrutò lei con compassione.
«Devi aiutarmi» dichiarai con schiettezza.

«Porta i documenti del rilascio e tutte le cose» esclamò, alzandosi dal letto e andando in bagno.
Annuii subito mentre la porta alla mia destra si spalancò di scatto facendomi sobbalzare. Era Ares che, come ogni mattina, saltò sul letto per darmi il buongiorno.

Quando io e Lydia ci presentammo davanti alla porta di Thomas, non volle ascoltare una parola. Ci chiuse la porta in faccia ma Lydia, dopo svariati minuti, riuscì a tirarlo fuori di casa.
Il tragitto verso la tavola calda era stato molto silenzioso. Eravamo all'entrata e sulla porta vedemmo il cartello che vietava l'ingresso ai cani. Prima di sederci al tavolo, chiesi al cameriere dove avrei potuto lasciare il cane e lui, gentilissimo, mi disse che avrebbe potuto portarlo nel piccolo giardino sul retro del locale. Lo ringraziai e andai a sedermi al tavolo.

Mi guardai attorno, per evitare lo sguardo di Thomas probabilmente, e mi resi conto che l'arredo era cambiato. I tavoli erano di un blu notte mentre le sedie erano dipinte di un azzurro sbiadito.

Alla cassa vidi una signora dai capelli neri intenta a fissare un punto impreciso davanti a sé.

«Puoi spiegarmi perché sono uscito con lei?» sbottò lui, rivolgendosi a Lydia.

Sospirai pesantemente, lo sguardo ansioso puntato sulla mia amica.

«Lei non ha mai lasciato Kentwood» esordì Lydia.

«Stiamo parlando di Riley, è un'esperta nel dire bugie» dichiarò lui con una risata isterica.

«Guarda tu stesso» affermò Lydia, prendendo la mia borsa per afferrare i documenti dell'ospedale.

«Vi lascio i menù oppure sapere già cosa ordinare?» ci interruppe il cameriere di prima.

Ordinammo la colazione e tornammo al nostro discorso.

«Ospedale psichiatrico Allegheny Asylum?» lesse le parole in tono interrogativo.

«Frequenta il centro di recupero due volte a settimana e prende delle pillole» disse Lydia senza rispondere alla sua domanda.

Thomas annuì confuso e tornò con lo sguardo sui documenti. Leggeva velocemente a bassa voce e noi due sentivamo tutto. C'erano delle parole che non riusciva nemmeno a pronunciare e le saltava, ma per tutto il tempo la sua fronte era aggrottata.

Dopo un paio di minuti, quando la colazione occupò il tavolo e non c'era più posto per i documenti, li piegò e per la prima volta mi guardò senza quel pizzico d'odio negli occhi.

An inconvenient truth || Dylan O'BrienDove le storie prendono vita. Scoprilo ora