Eric and Medford

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«Non c'è niente di cui parlare, sono stata chiarissima quella sera» pronunciai cercando di mantenere la calma.

«Lasciami spiegare-»

«Non c'è niente che tu debba spiegare! Ho accettato la tua decisione ormai e mi sto facendo da parte. Sai, non vorrei che tu mi considerassi ancora un'egoista» lo interruppi io indietreggiando.

Ero agitata e anche lui lo aveva capito perché si avvicinò a me e mi prese le mani, costringendomi a guardarlo negli occhi.
«Ero ubriaco quella sera, hai visto anche tu! Quelle parole e quelle cose che ti ho fatta fare, io non le volevo» spiegò lui guardandomi dritto negli occhi. «Ho ferito due persone contemporaneamente, Malia e te» aggiunse poco dopo, allontanandosi da me per osservarmi meglio.
Io rimasi ferma davanti a lui, incapace di parlare e muovermi.
«Mi sono comportato male e ti ho detto cose di cui mi vergogno» e nel frattempo che lui mi parlava, il nodo in gola diventava sempre più grosso.

Scossi la testa per liberare la mente e mi sentii gli occhi lucidi.
«Questo viaggio... perché hai deciso di farlo esattamente?»

«Risponderò alla tua domanda se tu rispondi alla mia» lui in risposta accennò un sì con il capo ed io proseguii. «La ami?» chiesi con disperazione ma allo stesso rassegnazione.

«Credo di sì» dichiarò lui con tono di voce piuttosto conciso.

Per pochi istanti, per me interminabili, non sentii niente. Né dolore, né felicità, non sentivo alcun tipo di emozione. La sua risposta mi aveva fatta rimanere male ma non potevo farne altrimenti. La domanda gliela avevo fatta io e lui mi aveva tolto ogni dubbio: non c'era più posto per me, per noi.

Dopo un iniziale momento di difficoltà, cancellai la sua affermazione, o almeno ci provai.

«Ora tocca a te rispondere» mi ricordò lui.

«Devo andarmene perché ti amo e, non per fare la drammatica, ma» feci una breve pausa. «Se resto qui, distruggerò me stessa, come ho fatto prima» replicai velocemente prima di allontanarmi da lui.

C'erano pochi passi che mi separavano dalla porta della cucina e, prima che potessi sparire dietro ad essa, lui mi chiamò.

«Mi» pronunciò per poi schiarirsi la voce. «Mi dispiace» concluse lui infine.

**

Stavo portando le due valigie al piano terra, Thomas era in macchina e mi stava aspettando.

Le nuvole grigie sparirono nel nulla all'improvviso, lasciando il posto al sole freddo di gennaio.

Non piansi quando scappai da Dylan, dopo la sua risposta. Ero andata in camera e avevo sistemato le ultime cose, poi Lydia era venuta ad informarmi che lui aveva lasciato la casa.

Finalmente mi chiusi la porta di casa alle spalle e sorrisi. Stavo per partire per quel viaggio che sognavo da quasi un anno. Da lì a pochi giorni avrei visto per la prima volta mia madre.

Pochi secondi dopo salii nell'auto del mio amico, Eric e Ares erano comodamente seduti sui sedili posteriori.

«Si parte» gridò ad un tratto Eric e subito dopo Thomas accese la radio.

Un'ora dopo, quando l'interminabile saluto di Thomas finì, eravamo sull'aereo. Eric aveva gli occhi chiusi e nel frattempo ascoltava la musica mentre io leggevo un libro e di tanto in tanto guardavo fuori dal finestrino.

«Riley, svegliati» sentii dire.

Aprii gli occhi e vidi Eric sorridere, poi alzarsi per prendere la mia borsa e il suo zaino. Non mi ero nemmeno accorta di essermi addormentata e avevo dormito per quasi tutta la durata del viaggio, per tre ore e mezza.

Scendemmo dall'aereo e aspettammo le nostre valigie poi chiamammo un taxi che ci portò ad un autonoleggio di auto. Mentre firmavo i documenti, Eric si rilassava con Ares sulla panchina fuori dalla struttura, poi quando tutto fu pronto il mio amico insistette per guidare lui.

Afferrai il telefono e cercai un albergo, scegliemmo il primo risultato che venne fuori. Eravamo entrambi stanchi mentre Ares era soltanto affamato, come al solito. Nel tragitto verso l'albergo ci fermammo in un negozio per fare scorta di sigarette e cibo per cani poi continuammo la nostra strada.

Eric stava parcheggiando l'auto nel parcheggio riservato ai clienti, lasciandomi con tre valigie e un cane che voleva ad ogni costo liberarsi del collare e museruola, quando il mio telefono iniziò a vibrare insistentemente. Era mio padre che voleva sapere se ci eravamo persi.

«Papà, abbiamo noleggiato un'auto che ha il navigatore, quindi no» gli dissi e lui, dall'altro capo del telefono, rise.

«Per qualsiasi cosa, chiamami» mi ricordò lui.

«Sì papà, ti voglio bene» riattaccai e aspettai per altri minuti il mio amico.

Quando finalmente arrivò, ci trascinammo dietro le valigie lungo il corridoio che portava alla reception dove trovammo una signora di mezz'età fissare lo schermo del computer.

«Buonasera» dissi io e lei abbozzò un sorriso gentile. «Vogliamo affittare una stanza per una notte» aggiunsi io seria.

«Stanza matrimoniale o doppia?» chiese lei digitando qualcosa al computer.

Per un secondo guardai Eric.
«Avete la suite?» domandai, e il mio amico si ingozzò con la propria saliva.

«Sono millequattrocento dollari a notte, signorina» disse la donna.

«La prendiamo» comunicai prima di cercare il portafoglio per prendere la carta d'identità e la carta di credito.

Aspettammo che la registrazione fosse fatta poi la signora chiamò il facchino per prendere i nostri bagagli e accompagnarci all'ultimo piano.

Il rumore dei passi di Eric e Ares venivano attutiti dal parquet in legno del salottino, ricoperto in alcuni tratti di moquette nera. L'ambiente era arredato con mobili di ultima generazione e sedie foderate di raso nero.

Eric si fermò davanti al caminetto, passando il palmo della mano sul ripiano liscio e pulito.
«Wow» esclamò lui.
«Già» mi limitai a dire, alzando lo sguardo in alto e facendolo scorrere lungo le pareti rivestite da tinta di colore grigio perla.

Lui si alzò e si incamminò verso una delle tante finestre affacciate su Central Street di Medford. Per qualche istante il mio amico rimase in silenzio ad osservare il panorama fuori dalla finestra.

«Grazie di tutto Eric» dissi mentre mi avvicinavo a lui.

Lui si voltò verso di me e annuì lentamente, come se avesse capito ciò per cui lo stavo ringraziando.

«Sei la mia migliore amica, farei di tutto per te» replicò lui con tono di voce sicuro.

Mi fece cenno di sedermi accanto a lui sul davanzale e guardammo insieme fuori dalla finestra. Le nostre dita di intrecciarono fra di loro e respirai profondamente.

Non riuscivo a smettere di domandarmi mentalmente se quella fosse la scelta giusta. Allontanarmi da casa mia e dai miei cari per andare in un altro Stato e cercare la donna che mi aveva abbandonata alla nascita. Forse non lo stavo facendo solo per lei, per trovare mia madre, bensì per me stessa. Forse il mio viaggio in Oregon era per allontanarmi dalla persona che un tempo mi amava, sì, probabilmente era dovuto a quello.

Eric, vedendomi pensierosa, ritrasse lentamente la mano e andò a dare da mangiare ad Ares che non smetteva di abbaiare poi ritornò vicino alla finestra con due bicchieri e una bottiglia di vino.

«A te» disse il mio amico mentre portavamo i bicchieri in alto per poi brindare.

«A noi due» lo corressi prima di avvicinare il bicchiere alle labbra e fare un lungo sorso.

Dopo un'abbondante mezz'ora, due sigarette e tre bicchieri di vino a testa, ci allontanammo dalla finestra avviandoci verso la camera da letto. Recuperai il telecomando e accesi la tv mentre Ares perlustrava ogni centimetro della stanza.

Mi lasciai cadere sul letto e chiusi gli occhi, addormentandomi nel giro di pochi secondi.

An inconvenient truth || Dylan O'BrienDove le storie prendono vita. Scoprilo ora