È un ritorno?

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Mi sentivo strana da quando mi ero svegliata con quel panico addosso, dubitavo delle mie stesse emozioni.

«Ora vado in camera mia» annunciò il ragazzo abbassando lo sguardo.

Non volevo che se ne andasse, c'era una ragione se fosse venuto in camera mia. Non poteva trattarsi di una semplice coincidenza, lui era venuto per primo a vedere cosa avessi e volevo che rimanesse ancora per qualche minuto. Si alzò ma io allungai il braccio per trattenerlo per la mano.

«Ho paura» dissi con un minimo di disperazione nella voce.

Sembrava che lui aspettasse solo che gli impedissi di andarsene perché tornò a sedersi, portando una mano sulla mia guancia.

«È stato solo un incubo, non devi aver paura» esclamò semplicemente.

Annuii e lui si stese sul letto accanto a me, sopra le coperte, come se avesse paura di fare qualcosa di sbagliato.

«Come hai fatto a sentirmi?» chiesi dopo diversi minuti di totale silenzio.

«Cosa?» domandò lui facendo finta di non capire.

«Lydia è nella stanza di fronte a questa e ha la porta aperta» gli feci notare, «le altre stanze sono dall'altra parte della casa.»

Sbadigliai, coprendomi la bocca con la mano sinistra, il sonno aveva la meglio su di me.

«Conta solo che sono venuto a controllare» rispose lui tirando le labbra in un leggero sorriso.
«Non è una risposta» un altro sbadiglio e gli occhi si chiusero senza troppe pretese.
«Sì invece» lo sentii dire.
«No, non lo è» riuscii a dire prima che mi addormentassi.

Era il quarto giorno da quando eravamo a Greenville e tutto stava andando bene. Dylan era tornato ad evitarmi dopo quel momento in cui tutto sembrava essere tornato alla normalità e mi chiesi se non fosse stato soltanto un sogno. Non ci guardavamo neanche più, era come se non esistessimo e tutta quella situazione mi feriva molto.

Avevamo appena finito di pranzare, alcuni dei ragazzi erano in soggiorno a giocare alla Playstation mentre noi ragazze pulivamo la cucina. Mi sentivo soffocare da quelle mura, era come se fossi in gabbia ed io avevo bisogno di scappare, ma da cosa?

Presi i sacchi della spazzatura, così avrei avuto un motivo valido per uscire senza dare spiegazioni a nessuno, e li portai nel cassonetto sul bordo della strada. Mentre tornavo indietro, in veranda, vidi qualcuno seduto sul divanetto e man mano che mi avvicinavo riuscivo a scorgere meglio il suo volto.

«Lydia ha visto uscire Dylan dalla tua stanza» disse Hazel mentre lasciava cadere la testa all'indietro.

Io in risposta alzai gli occhi al cielo e sbuffai. Lei mi fece cenno di sedermi accanto a lei.

«Non è successo niente» spiegai mentre prendevo posto.

La porta dell'ingresso si aprì e il ragazzo di cui stavamo parlando in quel momento uscì. Si limitò a ghignare e si sedette sugli scalini dell'entrata. Hazel invece, senza dire altro, si alzò lasciandoci soli.
Dentro di me avevo la certezza che lui lo facesse apposta, seguirmi e mettermi a disagio con la sua indifferenza. Voleva farmi arrabbiare, farmi imprecare perché ogni lite la vinceva lui.

«Hai trovato tua madre?» domandò con tono di voce cambiato e fece sparire anche il sorriso strafottente.

Sgranai gli occhi per poi voltarmi a guardarlo ma quando i nostri sguardi si incrociarono, non riuscii a reggerlo. Probabilmente perché non sapevo come comportarmi, che risposta dare alla sua domanda. Avevo paura che se gli avessi detto una bugia, lui l'avrebbe capito e sarebbe andato a chiedere spiegazioni ai nostri amici. Non dubitavo di Lydia, Hazel o Thomas bensì di Eric. Non perché avesse paura di Dylan o altro ma non riusciva a mentire su cose che non lo riguardavano.

«Cosa ti fa credere che io voglia raccontartelo?» sbottai, indossando la corazza dura che ormai non mi apparteneva più.

Lui sbuffò.

«Perché devi comportarti in questo modo? Rendi tutto così difficile» esclamò annoiato.

«Perché ora mi tratti da persona normale? Fino a pochi giorni fa non esistevo per te.»

Non replicò, si alzò e si sedette vicino a me. C'erano pochi centimetri che dividevano i nostri corpi ed io sentivo i propri respiri farsi più rari. Mi afferrò il polso e mi costrinse a guardarlo negli occhi.
«Prima di stare insieme eravamo amici, perché non possiamo tornare a più di un anno fa?» domandò mentre mi afferrava il viso per costringermi a non distogliere lo sguardo.

Io non riuscivo a rispondere, qualcosa me lo impediva, così grugnii fingendomi infastidita e mi scostai con un strattone.

«Sto cercando di andare avanti quindi se mi lasci stare, mi faresti un grande favore» risposi prima di alzarmi e rientrare.

Il cuore batteva fortemente nel petto, stavo per avere un attacco di panico, fortunatamente Eric se ne accorse e mi raggiunse. Mi accompagnò in camera e iniziò a cercare nella valigia la busta delle pillole. Quando le trovò, lasciò la stanza per pochi istanti e quando tornò, in mano reggeva un bicchiere d'acqua. La pillola di clonazepam scivolò giù nello stomaco, calmandomi poco a poco.

Eric rimase con me per minuti interi, assicurandosi del mio miglioramento.

Non lasciai la stanza per tutta la giornata, nemmeno per cenare. Lydia, Eric, Hazel e Chad avevano rinunciato all'uscita in discoteca perché avevano paura di lasciarmi sola così, quando la casa si svuotò, andammo in soggiorno e guardammo un altro film horror, tanto per cambiare.

An inconvenient truth || Dylan O'BrienDove le storie prendono vita. Scoprilo ora