Bestie

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La mattina dopo, alle nove e mezza eravamo già tutti in piedi, impegnati a tentare di sistemare il casino in tutta la casa, riportare le sdraio e le sedie in cantina e infilare tutti i vestiti nella valigia.

Lydia e Hazel erano deluse per la pioggia e la sveglia troppo presto perché avevano fatto le ore piccole anche quella notte. Continuavano a borbottare facendo capire agli altri che non avevano voglia di parlare con nessuno. Io invece mi coprii la testa e gran parte del viso con il cappuccio della mia felpa rossa, sospirai e caricai anche l'ultima valigia nella macchina di Thomas.
Eravamo in viaggio da circa una mezz'ora e all'interno dell'auto c'erano state le prime discussioni su che musica ascoltare. Non eravamo più da soli, a noi si erano aggiunti Harry, Justin e Hazel e rimpiangevo il silenzio della partenza.
«Ti posso chiedere una cosa?» chiese Justin a bassa voce.
«Sì» replicai e lui annuì, come per farsi coraggio.
«E se io ti chiedessi di andare a cena insieme, stasera?» domandò lui a bassa voce, facendomi arrossire leggermente.
«Non posso accettare, ho tante cose da fare-»

«Per esempio ha un pitbull che ha piantato a casa dei suoi genitori e ora si sente in colpa. Il pavimento del bagno è completamente ricoperto di vestiti da lavare, deve andare a fare la spesa perché le credenze e il frigo sono vuoti da settimane e non fa altro che ordinare cibo dai fast-food» mi interruppe Thomas.
Io, per l'imbarazzo in cui mi aveva messa il mio amico, mi legai i capelli in uno chignon disordinato, lanciando una breve occhiata intimidatoria a Thomas che era attento alla guida.

«È così?» domandò Hazel cadendo dalle nuvole.

«Più o meno» replicai facendo spallucce.
«Quando vuoi tu allora» pronunciò Justin con un sorriso sulle labbra.
«Quindi sarebbe un vero appuntamento?» domandai io in attesa che lui confermasse.
«Sì» dichiarò lui semplicemente.
Ovviamente non avevo la minima intenzione di uscire con lui, se mi avesse chiamata mi sarei inventata una scusa credibile.

Era un martedì quando andai al penultimo incontro con lo psicologo. Aveva cambiato ufficio e le pareti erano di un bianco fastidioso quasi, l'odore di muffa mi dava la nausea e avrei voluto andarmene via nonostante fossi dentro solo da pochi minuti.
«Allora, Riley» disse lo psicologo mentre io cercavo di evitare il suo sguardo. «Come vanno le cose?» domandò in seguito.

Stavo bene, quello era ovvio, ma ero ancora un'infelice cronica e non potevo dirglielo altrimenti avrebbe aggiunto altri incontri. Dovevo mentirgli perché ne avevo abbastanza di tutta quella storia, incontri con lo psicologo, antidepressivi e sonniferi. Volevo che tutto tornasse alla normalità anche se ormai era evidente che della vecchia Riley non c'era più traccia. Non riuscivo più a combattere per le cose che volevo, non creavo più casini, non mi complicavo più la vita. Ciò che una volta mi faceva sentire viva, in quel momento mi sembrava anormale.

Non appena i nostri sguardi si incontrarono mi sentii raggelare il sangue nelle vene, costringendomi a chiudere e riaprire gli occhi un paio di volte prima di replicare.

«Sto molto meglio» dichiarai con un sorriso tirato. «La notte riesco a dormire senza prendere sonniferi e non evito più la gente» mentii.

Ero cosciente del fatto che quella situazione fosse ridicola, trovarmi in quel luogo e in quelle circostanze con lui.

«E come va con i tuoi amici, con il tuo ragazzo?»

«Va tutto bene» pronunciai camuffando un lieve colpo di tosse.

«Stai prendendo normalmente gli antidepressivi?» chiese lui chinando la testa da un lato per osservarmi meglio.

«Sì, tutto procede normalmente» enunciai sperando di cambiare discorso.

Pochi secondi dopo mi sentii più rilassata perché, con la coda dell'occhio, notai lo psicologo posare la penna sul quaderno senza trascrivere le mie risposte.

An inconvenient truth || Dylan O'BrienDove le storie prendono vita. Scoprilo ora