Capitolo 17

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"Quando piove sembra che piova su tutto: sui sentimenti, sulle cose, sui pensieri, sulle strade. La pioggia ha in sé quel senso di malinconia indelebile, che un cuore sensibile non può non ascoltare." Stephen Littleword

Il tragitto era stato tranquillo e silenzioso, se non per il brontolio del mio stupido stomaco che si era fatto sentire più di una volta. Non avendo pranzato, ero terribilmente affamata e la stanchezza aggiunta al mal di testa stavano divorando ogni centimetro del mio corpo, ma decisi di ignorare il tutto e di seguire in silenzio Harry che stava camminando verso il palazzo. Alzai gli occhi verso l'alto, quando piccole goccioline bagnarono il mio viso, e sorrisi appena per poi sospirare e raggiungere il ragazzo all'interno del palazzo.

Salimmo velocemente le scale e, una volta davanti casa mia, infilai la chiave nella serratura, facendola scattare dopo qualche secondo.

"Roselynd" la voce di Harry attirò la mia attenzione. Mi voltai verso di lui, reggendo lo zainetto sulla spalla.

"Si?" chiesi, invitandolo a parlare.

Si mordicchiò il labbro inferiore, grattandosi la nuca con veemenza, e spostò lo sguardo verso il pavimento opaco del pianerottolo. Aggrottai la fronte, confusa dai suoi gesti. Sembrava essere combattuto da un qualcosa, ma non mi azzardai a chiedergli cos'avesse. Francamente, non avevo per niente voglia di litigare con lui.

"Niente, niente" scrollò velocemente le spalle per poi girarsi ed aprire la porta che, vari istanti dopo, varcò senza esitazione.

Seguii i suoi gesti e, non appena la porta fu chiusa, arricciai il naso, scuotendo piano il capo per poi rigirarmi ed aprire la porta.

Rientrata in casa, mi preoccupai di chiudere la porta a chiave e raggiunsi il salone, dove lasciai cadere lo zainetto sul divano per poi correre in cucina. La voglia di cucinare era nulla così decisi di ordinare una semplice pizza. Ebbi il tempo di farmi una doccia rilassante che, oltre a rigenerarmi, calmò anche il bombardamento che era in corso nella mia testa, prima indossare il mio adorato, si fa per dire, pigiama rosso. Al suono del campanello camminai velocemente verso la porta, pregustando il sapore della pizza, ma i miei sogni furono infranti quando il viso di Harry apparve davanti ai miei occhi. Mi vergognai a morte per quello stupido pigiama e pregai mentalmente che non mi prendesse in giro.
Con sorpresa, notai che sulle sue labbra non c'era alcuna traccia del sorrisetto derisorio che era solito rivolgermi. Corrugai la fronte, sempre più stranita di ritrovarmelo di nuovo lì, e mi azzardai a parlare: "Harry, è successo qualcosa?"

Scosse piano il capo, infilandosi le mani nella tasche anteriori dei jeans mentre il suo sguardo non accennava a spostarsi dal mio viso.

"Mi servirebbe un cerotto e della garza pulita"

HARRY's POV

Quanto diavolo ci mette per prendere quel dannato cerotto e quella stupida garza?

Le opzioni ero due: o era andata a fabbricarle oppure era scivolata scasualmente nella tazza del bagno. Sbuffai rumorosamente, spazientito da quell'attesa. Odiavo aspettare, odiavo fottutamente tanto le attese. Da bambino, ogni qual volta che mamma voleva portarmi con se a fare la spesa, andavo a nascondermi nell'armadio perchè mi irritava terribilmente dover stare venti dannati minuti in una specie di cestino ad aspettare che quella benedetta donna decidesse fra il té alla pesca o il té al limone. Gli altri bambini erano, per qualche ragione non ancora identificata, entusiasti di essere lì, come se stare in quel fottuto carrello fosse la cosa più bella del mondo.
E poi c'ero io: un moccioso di sei anni che non faceva altro che sbuffare e fare i capricci perché voleva tornare a casa e giocare con il suo robot, Popò. Lo avevo chiamato così perché, non volendo, mi ci ero seduto sopra e, dopo dieci minuti di pianto isterico, gli avevo tirato un calcio perché: "così impara!".
Naturalmente, i sensi di colpa, per essere un bambino di soli sei anni, erano arrivati ben presto e così, dopo essermi scusato con il robot, decisi di tenerlo e di chiamarlo Popò.

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