Capitolo Sedici

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Avevo creduto a Kirill quando mi spiegò il motivo delle sue non-visite all'orfanotrofio, comprendevo il suo disagio nel mostrarsi sofferente davanti a me quando quella che stava passando il vero inferno ero io, perché in realtà sapevo benissimo quanto potesse essere disastroso vivere in una famiglia affidataria.

Prima di conoscere i miei genitori italiani, la prima famiglia affidataria proveniva proprio dalla Bielorussia, ed era composta da marito, moglie e tre figli, di cui due maschi estremamente belli e vivaci. Vivevano in campagna, in una piccola fattoria di mattoni grigi composta da tre stanze in tutto: la cucina, una minuscola stanza da letto e un soggiorno con mobili in legno consumato. Il bagno, invece, come quasi in tutte le case della periferia, si trovava all'esterno, in una piccola cabina di legno. Nonostante tutto, il posto mi sembrava un sogno, ed ero ammaliata dall'enorme orto curato e dai diversi animali da fattoria, come maiali e galline. Avevo cinque anni, o poco più, e non ricordavo molto di quell'esperienza, ma nonostante l'età, ero abbastanza consapevole di essermi presa una cotta per uno dei fratelli, di almeno dieci anni più grande di me, e che si prendeva cura dell'intera famiglia con tanto affetto e dedizione. Ricordavo che mi seguiva sempre durante i compiti, e fu proprio lui ad insegnarmi le tabelline.

I suoi genitori erano una coppia gentile e affiatata, nutrivano un certo affetto per me, ma nonostante questo decisero comunque che io non ero la bambina adatta per loro, e che, quindi, non avrebbero proseguito con l'adozione. Esattamente un anno dopo conobbi i miei genitori italiani ma, nel frattempo, fu un'altra famiglia ad essere interessata a me, composta solamente da una signora giovane e dal suo figlio piccolo estremamente esuberante e viziato. L'inferno lo avevo passato proprio da loro.

Nonostante avessi già conosciuto e frequentato i miei genitori italiani, per qualche motivo misterioso che ancora tutt'oggi mi sfuggiva, avevo deciso di provare a vivere con quella signora e il suo figlioletto. Inizialmente tutto sembrava normale, avevo perfino una stanzetta tutta mia, ristrutturata da poco. Ma dopo qualche giorno, la mia vita sembrava essersi trasformata in quella di Cenerentola. Passavo più tempo a pulire e curare l'orto che uscire con gli altri bambini o dedicarmi ai miei semplici passatempi come giocare o leggere. Ero costretta ad aiutare in cucina, a fare da babysitter a quel bambino diabolico, a lavarlo e farlo addormentare. Ogni sabato sera, mentre in televisione davano un simpatico programma sul pattinaggio artistico, - che io volevo ardentemente guardare -, ero obbligata ad assistere la signora nella sua piccola e modesta sauna costruita nel giardino. Invitava almeno tre o quattro amiche, tutte vicine di casa, e non potevo fare a meno di vederle nude ogni santo sabato. Il mio compito era quello di asciugare il pavimento della sauna, di portare altra legna e l'acqua del pozzo per sciacquarsi. Inoltre, spesso dovevo picchiettare tutte quelle signore nude sulla schiena con un mazzo di rametti fogliosi di betulla fragrante, il che doveva aiutarle a rilassarsi maggiormente. Erano solite parlare di mille argomenti, e io mi sentivo costantemente spaesata. Dopotutto, ero solamente una bambina.

Eppure, quella non era la cosa peggiore che dovevo affrontare. Il male vero era il padre di questa signora; un uomo sulla settantina, molto silenzioso e inquietante. Aveva un debole per me, gli piaceva giocare a nascondino e cercarmi ovunque. A quell'età non comprendevo il significato di quelle attenzioni, ma con il passare degli anni, diventando più grande e consapevole, ero arrivata alla conclusione che ciò che facevo con quel signore anziano era del tutto sbagliato. Le sue attenzioni nei miei confronti, e soprattutto il modo in cui spesso mi abbracciava, non erano per niente normali, ma fortunatamente non era successo nulla di più grave.

Le cose in quella casa non mi andavano a genio; non mi piaceva lavorare costantemente e non mi piaceva essere sempre sola. A scuola la situazione non era migliore, anzi, il tempo passato lì dentro era stato il più tragico di sempre. Era una scuola diversa da quella che frequentavo quando ero all'orfanotrofio, sempre pubblica ma con fondi decisamente maggiori. Era molto bella e fornita di tutto, frequentavo addirittura le lezioni di danza contemporanea, ma i compagni erano tremendamente snob, sempre con la puzza sotto al naso. L'unica boccata d'aria fresca era la mia compagna di banco, Anya, che viveva in periferia ed era molto povera. Avevo un vago ricordo della sua casetta di legno e del caos che vi regnava dentro. Non aveva alcun apparecchio elettronico, il bagno si trovava all'esterno e il frigo era quasi sempre vuoto. Ma io amavo la sua compagnia, e in quel periodo era l'unica persona in grado di comprendermi. Ci sostenevamo a vicenda, e lei era sempre pronta a difendermi, anche quando ebbi un piccolo momento di follia che mi portò a rubare il telefono di una nostra compagna di classe.

Purtroppo, non avevo avuto tempo né l'opportunità di salutarla per l'ultima volta. Una notte ero semplicemente sparita, e non ero più rientrata in quella casa. Avevo deciso di abbandonare la famiglia in affido e cercare aiuto da Dimitri. Ricordavo di aver raggiunto casa sua dopo aver vagato per ore in giro per la città. Mi ero seduta su una panchina sotto il balcone che conoscevo molto bene, e dopo un po' di tempo, una figura robusta era uscita fuori proprio su quel balcone. Era un uomo a petto nudo impegnato a fumare una sigaretta. Mi guardò dall'alto e gli bastarono una manciata di minuti per riconoscermi e scendere a prendermi. Avevo i pantaloni bagnati, Dimitri mi aveva ripulita, sfamata e messa a letto. Finalmente mi sentivo a casa. Ma qualche ora più tardi, nel cuore della notte, la polizia aveva bussato alla porta. Stavo per tornare in orfanotrofio. 

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