Capitolo Ventisei

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Era notte fonda, ma non avevo alcuna intenzione di tornare a casa. Sarei rimasta a vegliare su Chan fin quando non si fosse svegliato. Erano ufficialmente trascorse ventiquattro ore da quando era entrato in coma, e il neurochirurgo era stato abbastanza chiaro sul fatto che potevano volerci anche giorni, addirittura settimane. I medici non potevano fare più niente, tutto stava nelle mani di Chan.

Mi chiesi cosa stesse realmente provando lui, se ci stesse osservando dall'alto, se fosse diventato un fantasma intento a vagare per il mondo in piena libertà. Mi chiesi se esistesse quella sorta di mondo parallelo dove finivano le persone in coma. Ne avevo sentito parlare spesso, ma era difficile crederci. Era difficile credere a così tante cose! Rimanevo seduta in sala d'attesa con le mani unite, a pregare chiunque volesse ascoltarmi e aiutarmi.

Prima di venire in Italia e convertirmi al cattolicesimo, ero di religione ortodossa. Ero piccola e credevo a tutte le favole che raccontavano, eppure ero abbastanza cosciente del fatto che Dio poteva anche non esistere davvero. Ma avevo deciso di crederci. Avevo scelto la via religiosa, mi piaceva andare in Chiesa, far parte del coro cristiano, frequentare i monasteri. In Bielorussia la religione era assai forte e presente, riuscivo a percepire quell'energia di speranza e amore ovunque andassi, nonostante la terribile infanzia. Ma poi le cose semplicemente cambiarono. Arrivai in Italia e mi feci convertire, pensando che la mia fede sarebbe proseguita allo stesso modo, senza influenze né cambiamenti. Tuttavia, seppur mia madre era credente, non aveva la tendenza ad andare in Chiesa, né di pregare prima di andare a letto. Di conseguenza anche le mie abitudini cambiarono, e crescendo scoprii che molte persone avevano ragione a indignarsi di fronte la Chiesa. Le loro storie rimanevano favole, e io alle favole non ci credevo più.

Comunque fosse, avevo smesso di pregare Dio per far avverare i miei sogni, e allo stesso modo non me la prendevo con lui quando le cose andavano storte. Arrivai alla conclusione che il male e il bene facevano parte della vita, ma decisi di non dare un nome né all'uno né all'altro.

Eppure, quella notte pregai così tanto e con tale intensità da non rendermi nemmeno conto che era arrivata l'alba. Speravo che Dio aiutasse Chan, promettendogli ingenuamente che mi sarei riavvicinata alla fede se lui l'avesse salvato. Ma sapevo che quel tipo di compromesso non poteva di certo funzionare. La mia disperazione mi stava solo facendo impazzire.

Luna tornò in ospedale dopo essersi assentata per alcune ore, in modo tale da cambiarsi e darsi una ripulita. Mi aveva detto di abitare piuttosto vicino l'ospedale, raccontandomi che si era trasferita a Napoli già da parecchi anni per lavoro. Difatti, quando Chan fu portato all'ospedale più vicino in seguito all'incidente, ossia quello di Napoli, il caso della vita aveva fatto sì che lei si trovasse già lì.

Insieme andammo in caffetteria per fare colazione. Osservai la figura armoniosa di Luna muoversi tra la gente per ordinare il caffè con cornetti, trovandovi una certa somiglianza con mia sorella Daria. Entrambe avevano più o meno la stessa età, ed entrambe avevano visto inserirsi un bambino randagio nella propria famiglia.

Aspettai Luna seduta ad un tavolo rotondo, c'era un grande via vai di persone già alle sette del mattino. Tornò da me con due caffè, due cornetti alla crema e anche con due bicchieri di spremuta d'arancia fresca. Mi offrì quella colazione e io la ringraziai con un debole sorriso sul mio viso stanco. Non avevo chiuso occhio per tutta la notte, sia perché le sedie in sala d'attesa erano estremamente scomode, sia perché volevo essere pronta in caso Chan si svegliasse.

Anche Luna era in evidente stato di caos. Si era impegnata a rendersi più presentabile con un filo di mascara, ma il tentativo di coprire le occhiaie era stato vano. In compenso, si era pettinata i lunghi capelli biondi, probabilmente li aveva perfino lavati, perché apparivano più lucidi rispetto a quando ero arrivata. Indossava un altro dolcevita, questa volta color panna, e notai quanto le stesse bene. Io, dal canto mio, indossavo una scialba felpa di almeno due taglie in più - amavo i vestiti larghi - e dei jeans neri.

«Hai avuto modo di parlare con i medici quando sono stata via?» Mi chiese sorseggiando il suo caffè amaro, mentre io avevo zuccherato il mio con due bustine.

«No, ho parlato solo con la tua amica, ma ha ripetuto le stesse cose che aveva detto il neurochirurgo ore prima.»

«Già, dobbiamo continuare a sperare. Ma che diavolo me ne faccio della speranza, dannazione?»

Condividevo il suo nervosismo, e la pensavo allo stesso modo. Era difficile sperare e attendere quando una persona a te cara probabilmente stava per morire.

«Siete molto legati?» Le chiesi volendo approfondire la sua conoscenza.

«È la persona che più amo al mondo» rispose lei senza esitazione. «Fui proprio io a chiedere ai nostri genitori di adottarlo. Eravamo in viaggio a Bangkok, lui aveva circa sei anni, io quattordici. Ci incontrammo per caso in un mercato, e lo sorpresi a rubare delle pesche. Lo conobbi proprio così, scoprii la sua storia e mi intenerii talmente tanto di fronte alla schiera di altri orfani che mi aveva presentato, che per il resto del mio soggiorno a Bangkok continuai a pregare insistentemente mamma e papà di adottare quel bambino. Volevo salvarlo a tutti i costi.»

«Hai fatto una cosa stupenda. È sorprendente, davvero.»

Luna fece un sorriso timido. «Grazie.»

«Anche io sono stata adottata» le rivelai, «ed è stata proprio questa esperienza così simile ad averci legati, me e Chan. Mi ha aiutato molto nell'ultimo periodo, ma le nostre strade si sono accidentalmente separate.»

«Ho notato che c'era qualcosa di strano nel suo comportamento ultimamente, e non mi è stato difficile capire che si trattava di problemi di cuore.»

«Non volevo ferirlo» dissi rammentando le ultime parole che gli avevo detto, e mi sentii subito in colpa.

«Siete molto giovani. I problemi arriveranno sempre, e sarà inevitabile ferirsi. Ma penso che tu gli abbia fatto bene, in qualche modo, anche se dici che vi siete allontanati.»

«Perché lo pensi?»

«Perché ha ripreso a suonare» rispose lei, guardandomi dritto negli occhi. «Ha questa ossessione per le chitarre, sai, ne ha comprate di ogni tipo nel corso della sua vita e le conserva gelosamente nel garage dove una volta suonava con i suoi amici. Ma poi, di punto in bianco, aveva smesso. Non ho mai scoperto il motivo del suo cambiamento. Da un giorno all'altro, era diventato un'altra persona. Non ha più toccato quelle chitarre, e sono passati ormai due anni.»

Rimasi molto toccata da quella confessione. Effettivamente non avevo mai visto suonare Chan, anche se mi parlava spesso del suo amore per la musica.

Luna iniziò a scavare nella sua borsa di pelle, in cerca di qualcosa. «Ma poi sei arrivata tu, e hai riacceso in lui la voglia di ricominciare. Come faccio a saperlo?» Chiese più a se stessa che a me. Poi, tirò fuori dei fogli spiegazzati. «Ha iniziato a comporre qualcosa, e dal modo in cui suonava avevo capito che doveva essere qualcosa di speciale.»

Mi porse i fogli, e riconobbi il pentagramma musicale. C'erano tante note scritte a mano, alcune a matita, altre con la penna rossa. C'erano diverse correzioni e scarabocchi. Era il pentagramma più caotico che avessi mai visto. Chiaramente si trattava di uno spartito, Chan stava componendo una musica, e sentii un profondo bisogno di sapere di cosa si trattasse.

Il titolo mi aveva lasciata senza aria nei polmoni.

«È grazie alla canzone che ho potuto chiamarti. Ho trovato il numero sul suo cellulare.» Mi spiegò Luna mentre i miei occhi continuavano a rileggere all'infinito quella parola scritta a stampatello e ricalcata più e più volte: Yuliya

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora