Capitolo Uno

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Mark Twain diceva che ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro. Non avevo ancora mai sentito parlare di questo Twain quando lessi il suo aforisma per la prima volta, ma fu proprio allora che compresi di avere in comune con gli scrittori più di quanto pensassi. L'inizio del mio amore per la lettura aveva una data incerta, non ricordavo l'esatto momento in cui capii di avere tale passione, e non ricordavo nemmeno il mio primo libro, né quello che mi aveva cambiato la vita. Ma sapevo per certo che l'Università mi aveva fornito una visione più completa della mia fallimentare esistenza. Frequentando le lezioni di letteratura, i miei appunti non erano altro che scarabocchi sulle similitudini tra me e gli autori in programma. A fine corso traevo le mie conclusioni: ad esempio, condividevo il pessimismo leopardiano, perché proprio come Leopardi mi sentivo giudicata, sofferente, non compresa. Mi sembrava come se la vita fosse contro di me, come se fosse gentile con chiunque tranne che con me, riservandomi le sue più svariate sfumature di malvagità. E, proprio come Leopardi, avevo sempre pensato che le epoche passate siano state migliori di quelle presenti. Tanti secoli ci dividevano, eppure sentivo ogni suo malessere come se fosse anche il mio.

Poco tempo dopo, compresi meglio il pensiero di Pirandello. Ricordo che durante una lezione dedicata a lui io rimasi meravigliata di quanto la sua visione e interpretazione del mondo fosse assai somigliante alla mia. E mi resi conto di essere proprio uno di quegli individui che vive su un palcoscenico munito di maschere diverse, pronte all'uso per adattarsi al contesto sociale nel quale si trova. Ero sempre stata quella ragazza da mille complessi, non mi amavo e non mi accettavo, facendo sì che nemmeno gli altri mi amassero. Credevo che indossare una maschera, un volto falso che nascondesse quello reale, fosse l'unica cosa che potesse aiutarmi a integrarmi nella società.

E poi mi avvicinai alla poesia, a poeti come Montale, Saba, Baudelaire, Mallarmé. Sono stati la mia rinascita, ma anche la mia rovina. Dopo aver letto qualcuna delle loro poesie o citazioni, prendevo di nascosto il vino di papà, riempivo un bicchiere fino all'orlo e mi avvicinavo alla finestra. Osservando il nulla davanti ai miei occhi, mi chiedevo: "Che senso ha vivere?".

Chiunque leggerà queste parole penserà che io sia semplicemente pessimista e svogliata, caratterizzata dal tipico atteggiamento di chi si approccia per la prima volta con la vita adulta. E forse avrà ragione, ma la mia discesa verso gli abissi, verso l'angolo più tenebroso del mio stesso Io, ha avuto inizio molti anni prima, quando ero appena una neonata. Più precisamente era il giorno del mio primo compleanno quando arrivò un inverno glaciale, mi scrutò con gli occhi di cristallo e, con quello sguardo distante, mi fece capire che la mia vita sarebbe andata a rotoli. Avevo perso entrambi i genitori, ero finita in un orfanotrofio e avevo passato i successivi undici anni a chiedermi se sarei mai stata amata da qualcuno.

Saltando molte tappe della mia infanzia turbolenta, posso affermare che il miracolo avvenne, fui adottata da una splendida famiglia italiana e incominciai un nuovo e felice capitolo della mia vita. Tuttavia, la felicità fu di breve durata, perché i demoni del passato cominciarono a perseguitarmi, plasmando il mio carattere detestabile e dando inizio alla mia costante insofferenza e insoddisfazione. Ma per parlare di questo c'è ancora tempo. Il mio percorso di redenzione iniziava proprio con la mia iscrizione al terzo anno della Facoltà di Lettere Moderne, all'Università Federico II di Napoli. Non sapevo precisamente il perché, a diciotto anni, avessi scelto tale facoltà, se a causa della mia passione per l'insegnamento o a causa del mio incondizionato amore per la scrittura. Ad ogni modo, credevo fermamente che avrei riscoperto me stessa lì dentro, e che mi avrebbe aiutato a realizzarmi veramente, a capire alcune cose che allora non comprendevo affatto. Ma frequentare la Federico II aveva significato anche trasferirmi a Napoli, a cinque ore di macchina dalla mia casa, dalla mia famiglia, dalla mia zona di confort.

Io ero nata in Bielorussia, ma poi fui adottata da una famiglia italiana, più precisamente calabrese. La mia vita qui si svolse tra gli undici e i diciotto anni; dunque, iniziare l'Università a Napoli era stato un vero trauma, perché mi sembrava di non essermi goduta abbastanza quei sette anni nella mia piccola città, con i miei pochi amici e con la mia famiglia. Dopo la breve esperienza nel nucleo familiare, mi ritrovavo di nuovo a vivere da sola. I primi due anni di corso erano stati drammatici; avevo pochissime conoscenze, gli esami si erano rivelati più impegnativi del previsto e casa mia mi mancava fin troppo. Ripensavo costantemente alla Calabria.

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora