Capitolo Ventuno

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Dopo aver letto la lettera mi ero immediatamente fiondata sul PC e avevo passato circa quaranta minuti alla ricerca del primo volo conveniente per la Bielorussia. Ormai avevo preso la mia decisione, niente e nessuno avrebbe potuto cambiarla. Probabilmente stavo facendo una pazzia, eppure mi sembrava la cosa più giusta che avessi mai fatto in tutta la mia vita. Ero impaziente e trepidante, un po' preoccupata ma anche fiduciosa. Non avevo mai viaggiato completamente da sola, non avevo mai organizzato nulla del genere, ma finalmente potevo sperimentare sulla pelle l'ebbrezza di fare qualcosa di simile.

Avevo controllato la validità del mio passaporto e di tutti gli altri documenti, avevo prenotato un biglietto di sola andata per il giorno seguente e poi mi ero messa sul letto con un taccuino sulle gambe. Dovevo programmare nei minimi dettagli la mia permanenza.

Era ovvio che partissi per incontrare Dimitri e ripercorrere il viale dei ricordi, ma volevo anche approfittare di quel viaggio per godermi la sensazione di essere libera e autonoma. Io amavo la solitudine, moltissimo, ma quella che avevo a Napoli cominciava ad opprimermi non poco; perciò, partire forse era una buona idea. Credevo fermamente che quel viaggio mi sarebbe servito per riprendere in mano la mia vita e guardare con più chiarezza verso il futuro.

In quel momento le ultime parole di Chan risuonarono nella mia mente, e addirittura gli diedi ragione. Stavo facendo l'egoista, ma lo stavo facendo per me, perché mi serviva veramente. Dovevo abbandonare per qualche giorno la vita apparentemente perfetta che svolgevo per osservarmi dall'esterno, da un'altra prospettiva, persino da un suolo differente, e solo allora, molto probabilmente, avrei trovato la pace che cercavo da così tanto tempo.

Disfai la valigia che avevo portato dalla Calabria e la rifeci da capo, portandomi dietro solo lo stretto necessario. Fumai un'altra sigaretta sul balcone, ormai era sera inoltrata, e sentii lo stomaco brontolare. Cercai nella credenza qualcosa da mangiare, trovandovi solamente una misera scatoletta di tonno e dei crackers salati. Cenai velocemente con quello che avevo trovato, poi mi lavai e andai a letto. Chiusi gli occhi e sperai con tutto il cuore che ciò che stavo facendo fosse giusto.

La sveglia suonò alle cinque, e dopo nemmeno venti minuti ero già lavata e vestita. Raccolsi velocemente i miei bagagli e chiusi la porta di casa alle spalle. Avevo il cuore a mille, ma cercai di non pensarci. Dovevo continuare a mostrarmi determinata e sicura di me.

Chiamai un taxi sotto il palazzo ed esso mi accompagnò all'aeroporto che distava pochi minuti dalla zona dove abitavo. Feci il check-in e caricai il bagaglio, dopodiché potei finalmente salire sull'aereo. Erano le sei e mezza del mattino e il volo prevedeva circa tre ore.

Rimasi turbata sul mio sedile per tutto il tempo, avevo seriamente il cuore a mille e mi sudavano le mani. Da quando mi ero avviata da casa avevo spento il cellulare, e probabilmente lo avrei tenuto tale per un bel po'. Non volevo ricevere chiamate di mamma né quelle di mia sorella, perché se avessi sentito la loro voce ero convinta che sarei tornata indietro.

L'aereo atterrò a Minsk, la capitale. E qui fui costretta a prendere un autobus che mi portasse a Lida, la città della mia infanzia. Ci volevano due ore per arrivarci, forse anche meno, e durante il percorso non avevo staccato gli occhi dal finestrino neanche per un secondo. Ero totalmente rapita dal mondo che si stava rivelando al mio passaggio. La capitale, rivestita dalla bianca neve, era splendida proprio come la ricordavo, e avevo notato un certo ammodernamento dell'ambiente. Ma non appena il pullman cominciò a percorrere le strade della periferia, la realtà di quel mondo mi era arrivata in piena faccia come uno schiaffo. Anche quella visione era uguale ai miei ricordi, con pezzi di terra immensi ricoperti di neve alta due metri, alberi magri e spogli, strade fangose, cielo cupo. C'erano molte case sparse, ma erano tutte trasandate.

Lo stesso scenario mi si era presentato davanti gli occhi anche quando avevamo passato il confine con Lida. C'erano solo lunghe distese di nulla. Vedevo la neve ovunque, ma solo quella.

Per un po' lo sfondo non cambiò, ma poi cominciammo ad avvicinarci al vivo della città. Comparvero le prime abitazioni in legno, poi quelle in mattoni. Comparvero strade con l'asfalto appena spalato, spuntarono tante macchine al nostro fianco e il paesaggio iniziò a mutare lentamente. Vidi i primi palazzi, poi i grandi magazzini, ristoranti e locali vari. Osservai la gente passeggiare, tutti indossavano cappotti lunghi fino alle caviglie, stivali spessi e cappelli di lana. Eppure, i colori non cambiarono. Il cielo rimase grigio e cupo, e altrettanto grigi e incolori erano anche le strutture e le persone.

Sentivo una profonda angoscia e tristezza addosso, ma continuavo a bearmi di quella visione. Perché quella era casa mia. Ci avevo vissuto per i primi undici anni di vita, e per quanto fosse diversa rispetto a quella dove vivevo adesso, mi piaceva comunque, mi apparteneva.

Il pullman si fermò alla propria stazione e aspettai qualche minuto in più poiché volevo uscire per ultima. Ancora mi sembrava surreale, e avevo paura di poggiare i piedi su quel suolo che - per quanto mi appartenesse - era comunque sconosciuto. Ma poi finalmente scesi e l'aria gelida che aveva riempito i miei polmoni mi riportò indietro di dieci anni, a quando avevo respirato in questo ambiente l'ultima volta che ci ero stata. Mi sembrò di rinascere e di morire allo stesso tempo, per poi rinascere di nuovo. Era una sensazione inspiegabile e inebriante, mi sentivo euforica e malinconica allo stesso momento. Non avevo mai, e giuro mai, provato qualcosa di simile. 

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora