Capitolo Due

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Io non credevo all'oroscopo; o meglio, fingevo di non farlo in modo tale che le parole lette si avverassero davvero. Seguivo questa filosofia quasi in tutto: fingevo che nulla mi importasse particolarmente cosicché non rimanessi ferita o in qualche modo toccata dagli eventi. Non avevo mai l'ansia per un esame prima della mattina stessa in cui lo dovevo sostenere, e spesso mi decidevo a studiare pochi giorni prima, una decina al massimo, nella convinzione che volere è potere; dunque, io potevo imparare un manuale di cinquecento pagine in poco tempo. Mi svegliavo al mattino con il solito programma ben inciso nella mente: studiare, studiare, studiare. Tuttavia, rimandavo sempre al giorno dopo, e al giorno dopo ancora, continuando a sostenere la mia filosofia del "basta non pensarci".

Come già detto, io non credevo nell'oroscopo, ma inconsciamente speravo che l'uomo ritratto nello schermo della TV avesse realmente ragione nel dire che mi aspettavano grandi novità. Avevo un disperato bisogno di dare una smossa alla mia vita.

Quel pomeriggio, dopo la fine delle lezioni, mi rifugiai in casa mia. Pranzai velocemente con un'insalata e una scatoletta di tonno, facendo un pisolino subito dopo. Vivevo da sola già da due anni poiché mi ero imposta di prendermi la completa responsabilità di me stessa, cercando di imparare a fare determinate cose senza l'aiuto di nessuno. I miei genitori ne erano orgogliosi, ma allo stesso tempo non erano del tutto pronti a lasciarmi andare, soprattutto dopo che mia sorella aveva deciso di convolare a nozze con il fidanzato. Era di qualche anno più grande di me, già realizzata nel mondo del lavoro e pronta a fare il passo successivo, quello di costruirsi una famiglia con il ragazzo dei suoi sogni. Stavano insieme praticamente da una vita, entrambi erano testardi e cocciuti, ma estremamente felici e soddisfatti delle loro vite, e io amavo passare il tempo con loro. Ma prima che Daria conoscesse Michele, io e lei eravamo state delle acerrime nemiche, rivali in tutto, contendendoci soprattutto l'affetto dei nostri genitori. Lei era la figlia naturale di mamma e papà; dunque, io avevo sempre paura di essere messa da parte, ma fortunatamente non fu così, perché nonostante tutto la nostra famiglia rimaneva molto unita e solida.

In realtà, Daria mi adorava. Quando arrivai a casa proclamandomi a tutti gli effetti parte della famiglia, lei si era messa a piangere dall'emozione. Ricordo che mi abbracciò così forte che temetti di svenire per la mancanza di ossigeno, eppure quella stretta mi era servita per scacciare i brutti pensieri che popolavano la mia mente in quel momento. Perché, nonostante l'adozione e la gioia di una nuova famiglia, il mio cuore non riusciva a trovare pace, e mi sentivo come se quel filo invisibile che legava il mio corpo alla mia città natale non si fosse mai spezzato, neanche a distanza di tutti quei chilometri. Mi sentivo come se avessi lasciato qualcosa in sospeso in Bielorussia, qualcosa che non riuscivo ancora a comprendere ma che volevo a tutti i costi lasciarmi alle spalle. Abbandonare un mondo per rifugiarmi in un altro del tutto diverso non era stato facile, e allora ancora non mi ero resa conto che avrei percepito quella sensazione per il resto dei miei giorni.

La Bielorussia era quel tipo di Paese che normalmente avrei definito scadente, sia per quanto riguardava la qualità della vita sia per quanto riguardava le persone. Non fraintendetemi, è un Paese decisamente ospitale, eppure abbastanza sconosciuto all'Occidente, difatti i flussi turistici non sono così grandi, non lo erano neanche quando io vivevo lì. Nonostante vi siano monumenti storici e artistici di grande valore, la maggior parte dei quali risale al periodo dell'Unione Sovietica, la fama non appartiene a questa terra. In fin dei conti, è un bel Paese, e a me piaceva più di quanto mi piaccia adesso. Sarà che non lo vedo da dieci anni. E come potrei mai descrivere la piccola città in cui sono vissuta per la prima metà della mia esistenza? I ricordi che abitano la mia mente sono tutti dipinti attraverso lo sguardo di una bambina, eppure, nonostante l'età, all'epoca non ero affatto una bambina.

Dopo un pisolino durato fin troppo chiamai mia madre per chiacchierare di cose futili, promettendole che, in seguito alla telefonata, mi sarei messa a studiare. Ma non lo feci. Rimasi a lungo distesa sul letto, con le braccia incrociate dietro la testa e lo sguardo rivolto al soffitto, mentre la flebile luce della lampada da comodino regalava alla stanza un aspetto intimo. La mia umile dimora non era niente di speciale, a tratti mi opprimeva, a tratti la amavo da morire. Più che altro amavo stare da sola, rinchiusa tra quelle mura fredde e silenziose, in compagnia di un buon libro e dei miei infiniti diari su cui sfogare la mia incessante frustrazione. Mentre riflettevo come al solito sul mio futuro, il cellulare squillò e, leggendo il nome di Aurelio sul display, risposi.

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora