Capitolo Sei

217 46 14
                                    

L'infanzia mi aveva riservato tanti momenti, belli e brutti, che avevano formato la persona che ero oggi. Si trattava di momenti che, seppur potevano risultare surreali per una ragazzina di otto anni, avevano contribuito a costruire il mio carattere di adesso e ad appesantire il mio bagaglio delle esperienze. Ovviamente non tutti i miei trascorsi erano degni di lode, ma anche se la mente cresceva più velocemente del corpo, rimanevo comunque una bambina.

C'erano diverse storie particolari e simpatiche che spesso mi capitava di raccontare a chiunque mi chiedesse di parlare delle cose più strane mai fatte e, partendo dal presupposto che ero una ragazzina vivace soprattutto nell'amore, ce n'erano molte eccome! Non sapevo il perché, già all'età tra gli otto e i dieci anni, avessi fatto determinate esperienze con i ragazzini della mia età. All'orfanotrofio crescevamo più velocemente dei nostri coetanei che vivevano con le proprie famiglie; dunque, prima di essere adottata avevo già dato i miei primi baci ed ero consapevole del mio corpo.

In quella che era stata la mia casa per undici anni, avevo avuto una cotta incredibile per un ragazzo leggermente più grande, che era il fratello di una delle mie migliori amiche. Potrebbe sembrare una interessante fanfiction con un finale cliché, e per certi versi lo era stata, ma ricordavo ancora molto bene di quanto fossi veramente attratta da quel ragazzo. Nonostante il mio primo bacio era stato con la mia migliore amica del tempo, Tanya, sapevo per certo di essere etero e che nella vita sarei stata allettata e affascinata solamente dai ragazzi. E il mio primo amore era stato proprio lui, Denis.

Era incredibilmente alto e magrolino, aveva i capelli leggermente mossi e allungati sui lati, indossava quasi sempre camicie a quadri ed era molto bravo a calcio. Probabilmente mi ero avvicinata al mondo di questo sport soprattutto per passare più tempo con Denis e legarmi sempre più a lui. Giocavamo spesso insieme, e so quanto poteva risultare strano considerando la nostra età del tempo, ma piano piano eravamo diventati cotti l'uno dell'altra. Da lì nacquero anche i primi diverbi con la sorella, i primi schieramenti e i primi atteggiamenti da ragazzini immaturi che eravamo. Ricordo che Tanya si prese una bella cotta per un amico di Denis, e allora cominciammo a fare le uscite a quattro. Le nostre uscite, o appuntamenti, consistevano in semplici passeggiate attorno l'orfanotrofio o i picnic sul prato. Per me era rassicurante avere una persona come Denis a fianco, perché da quando decidemmo di stare ufficialmente insieme - proposta che ebbi attraverso un bigliettino a risposta multipla - la mia vita era diventata leggermente più sopportabile, e mi ero decisa persino ad andare meglio a scuola. Già a quell'età mi piaceva sentirmi amata e considerata, mi piaceva passare del tempo con una persona del sesso opposto che riusciva a capirmi e che, soprattutto, viveva la mia stessa realtà. Era come se in Denis avessi trovato una figura somigliante a quella di mio padre o quella di mio fratello, con l'aggiunta di baci e carezze. Grazie a lui avevo accantonato la me ribelle, la me aggressiva che cercava sempre scontri fisici e verbali, la me competitiva in tutto e la me invidiosa degli altri. Il ricordo di tutto ciò mi faceva sorridere anche ora, perché momenti ingenui e teneri come il baciarsi chiusi in un armadio, lontano dagli occhi indiscreti, per me rappresentavano una boccata di vita e di libertà, cosa che era impossibile avere in quel contesto. Già a quell'età avevo capito che era bello appartenere a qualcuno, sentire di essere di qualcuno, quel qualcuno che mi avrebbe completato per il resto della vita. Ma ovviamente io e Denis eravamo troppo piccoli e immaturi per poter mandare avanti un rapporto del genere e renderlo duraturo negli anni, soprattutto perché io avevo lasciato l'orfanotrofio per sempre e lui no.

Ripensare al mio primo amore mi aveva messo fame, così convinsi Aurelio a saltare l'ultima lezione della giornata e rifugiarci in un bar per un aperitivo di metà pomeriggio. Ordinammo due spritz con stuzzichini e io mi accesi una sigaretta. La giornata era abbastanza soleggiata ma l'aria risultava comunque fresca a causa di una settimana piena di piogge e vento appena trascorsa. Avevo ufficialmente messo la trapunta sul letto e mi portavo delle felpe col cappuccio all'Università.

«Hai risolto con Dani?» Gli chiesi dopo aver addentato una pizzetta. Lui annuì e sorseggiò il suo drink. Indossava una giacca pesante di colore marrone e una sciarpa a quadri gli avvolgeva il collo. Gli occhiali neri incorniciavano gli occhi scuri e la barba lunga ricopriva le guance scavate. Era dimagrito parecchio nell'ultimo periodo.

«Abbiamo parlato. È stato davvero carino nel rassicurarmi.»

«Te l'avevo detto.» Stavano insieme ormai da un anno, ed erano letteralmente la coppia più bella che avessi mai conosciuto.

«Tu ancora nulla all'orizzonte?» Mi chiese con voce maliziosa e quello sguardo seducente che faceva molto spesso. Adoravo le sue espressioni facciali.

«Non ho incontrato nessuno di interessante, e a dire il vero non credo di essere pronta a intraprendere alcuna frequentazione.» Tuttavia, la mia mente mi riportò al ragazzo della chitarra, ma decisi di non dire ancora niente al mio amico.

«Ma smettila! Sei troppo in gamba per rimanere da sola. Solo perché quello stronzo di Antonio ti ha ferita non vuol dire che il tuo cuore non merita di essere nuovamente felice.»

«Credo di non avere più un cuore, sai?»

Aurelio sospirò e mi prese la mano lungo il tavolino. «Fidati di me, tu un cuore lo hai, e anche abbastanza grande! Mi basti ripensare a tutte le volte in cui hai accantonato la tua vita e i tuoi impegni per aiutare me. Sei straordinaria, e se non vuoi una relazione va bene, ma non privarti del calore umano. Non estraniarti, piuttosto esci e goditi la vita.»

Amavo il suo ottimismo, sul serio, eppure in quel momento non mi era di alcun aiuto. Anzi, mi faceva sentire in colpa, inutile, e un peso per chiunque mi stesse intorno. Ogni tanto mi fermavo a riflettere e mi rendevo conto che effettivamente ero fin troppo pessimista e malinconica, e che questo atteggiamento non faceva altro che allontanare le persone da me. Ma come potevo evitarlo? Il malumore arrivava sempre e comunque, e per quanto tentassi di fare un sorriso, la mia mente insisteva nello sprofondarmi negli abissi.

«Ti voglio bene.» Ebbi il coraggio di dirgli soltanto quelle tre parole, perché erano sincere, ma anche perché mi ero nuovamente chiusa in me stessa. Non riuscivo più a pensare a nulla di logico e positivo. Terminammo il nostro aperitivo, dopodiché le nostre strade si separarono.

Il giorno dopo non studiai, presi la mia chitarra e iniziai ad esercitarmi fino allo sfinimento. Le mani erano di nuovo indolenzite e le dita callose bruciavano. Non avevo fatto grossi miglioramenti, ma non mi davo per vinta. Ripensai anche alla gravidanza di mia sorella, al matrimonio anticipato, al fatto che era e aveva tutto ciò che io avevo sempre sognato di essere e di avere. Invece di porla a modello da seguire, semplicemente la invidiavo senza muovere un muscolo per raggiungere i miei obiettivi. Non era che non volessi, io non avevo proprio le forze necessarie per farlo. Continuavo a brancolare nella mia disperazione, piena di ozio e veleno dentro. Sdraiata sul letto fatto di speranze svanite, dal materasso colmo di lacrime salate e le coperte cucite con la follia, mi chiedevo se non fosse più semplice farla finita.

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora