Capitolo Sette

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Il destino era un concetto di cui sapevo veramente poco, di cui non comprendevo alcuni aspetti ma che trovavo estremamente affascinante. Prendendo in esempio una vita come la mia, era impossibile non credere nel destino. Mia madre biologica era morta, mio padre biologico sparito, sapevo di avere un fratello sconosciuto da qualche parte in Bielorussia e avevo passato una infanzia infernale, ma ero comunque uscita vittoriosa da quel tunnel invaso dalla nebbia infelice. Avevo trovato una nuova famiglia, grazie alla quale, tra alti e bassi, avevo riscoperto l'amore e il calore. Avevo avuto nuove opportunità, mi ero lasciata circondare dall'affetto e dalla normalità. Se questo non era destino, allora cos'era stato? Avevo letteralmente vissuto due realtà opposte, due mondi differenti, avevo sperimentato il bianco e il nero. Perciò non mi era difficile credere al fatto che la mia vita era stata scritta fin dall'inizio. Avevo la perenne sensazione di leggere un copione che non conoscevo, ma che comunque riuscivo a recitare alla perfezione. Tuttavia, ora mi trovavo in bilico. Perché il passato non mi aveva mai abbandonata, e il futuro diventava più incerto che mai. Temevo di aver perso il copione. Non sapevo più cosa fare della mia miserabile esistenza.

Ma poi il destino aveva scoperto nuovamente le sue carte, e a quel punto mi chiesi quante probabilità c'erano che incontrassi il ragazzo della chitarra ancora una volta in una città così grande e caotica come Napoli. Eppure, lui era proprio lì, seduto al tavolino di un bar immerso in una vivace conversazione con gli amici.

Era un sabato sera particolarmente freddo e umido, ma la piazzetta dove si riunivano tutti i giovani era, come sempre, gremita di gente. Tutti bevevano, fumavano e parlavano a voce alta. Lungo un marciapiede ampio erano situati, uno accanto all'altro, i baretti con tavolini pieghevoli allestiti all'esterno. Si facevano concorrenza a vicenda, ma erano comunque sempre pieni. E il caso voleva che il tavolo vicino a quello dove era seduto il ragazzo della chitarra fosse libero, così io e i miei amici ci sedemmo proprio lì.

Avevo il cuore a mille, sudavo freddo e mi torturavo i capelli ricci in modo compulsivo. Aurelio mi chiese se stessi bene e io lo liquidai con un accenno di capo. Ordinammo le nostre birre, poi accesi una sigaretta, l'ultima di quel pacchetto iniziato ormai quasi un mese prima. Il mio non era un vizio vero e proprio, mi piaceva fumare di tanto in tanto, soprattutto quando ero nervosa, proprio come in quel momento. Il ragazzo della chitarra non si era ancora accorto di me, ma una sua amica sì, ed era proprio colei che gli aveva fatto compagnia quel giorno al negozio degli strumenti. Mi squadrò incuriosita ma poi distolse lo sguardo. Sapevo per certo che mi aveva riconosciuta.

Dopo un po' di tempo io ero alla mia seconda birra, Aurelio ancora alla prima, Dani aveva ordinato un secondo cocktail e Mona era ormai brilla dopo una birra e qualche shot. Lei era la festaiola del gruppo, anche se nell'ultimo periodo si era leggermente calmata. Una delle sue caratteristiche più interessanti era che amava fare amicizia con chiunque, e diventava estremamente socievole dopo aver bevuto un po'. Io volevo un'altra sigaretta, ma le mie erano finite, così chiesi a Mona se riuscisse a procurarne una da qualcun altro. Fu proprio allora che il ragazzo della chitarra mi notò, poiché Mona si era girata verso il suo tavolino disturbando l'intero gruppetto.

I suoi occhi mi scrutarono increduli, e per qualche motivo non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo. Non riuscivo a calmare i battiti del mio cuore, perché internamente mi sentivo come un fuoco d'artificio pronto a esplodere in mille colori diversi. Ero felice che mi avesse notato, perché speravo finalmente di conoscerlo. Grazie a Mona era stato possibile.

La sigaretta era ormai diventata solamente una scusa, perché Mona, dopo aver capito che quei ragazzi erano calabresi, aveva iniziato a chiacchierare animatamente con loro, dicendo che era stata al sud molte volte durante le vacanze estive. Uscì fuori che anche io ero calabrese, e a quel punto tutti gli occhi erano puntati su di me. Dissi dove abitavo, e scoprii che loro invece provenivano da un paesino vicino alla mia città. Era incredibile come il destino fosse talmente assurdo e onirico.

Alla fine, unimmo i nostri tavolini; mi ritrovai a sinistra due ragazze more molto carine e di fronte proprio il ragazzo della chitarra. Poco dopo scoprii che si chiamava Channarong, per gli amici Chan. Aveva origini thailandesi e aveva la mia stessa età, ma non ero riuscita a scoprire altro. I suoi amici erano molto simpatici, spesso parlavano nel dialetto calabrese e sapevano perfettamente come intrattenere quattro estranei come noi. Mona rideva spesso e continuava a bere, io ormai fumavo come una ciminiera e Aurelio si scambiava effusioni con il fidanzato. In fine dei conti eravamo un bel quadretto.

Decisi di alzarmi dal tavolino e raggiungere l'interno del baretto per il bagno. Dovetti mettermi in fila. Lo spazio era molto stretto, ero letteralmente schiacciata tra una parete e il bancone del barman, davanti a me c'erano altre tre ragazze in attesa. Una voce roca mi raggiunse alle spalle.

«Hai imparato a suonare qualcosa?» Quella voce apparteneva a Chan, mi sorpresi di averlo così vicino a me quando mi girai nella sua direzione. La luce flebile del locale proiettava un gioco di ombre sul suo viso ovale e pulito. Aveva sempre la stessa barba corta, appena percettibile, gli occhi affascinanti e capelli ricci arruffati. La camicia sbottonata sul petto gli conferiva un'aria sexy.

«Non sono per niente brava» ammisi con sincerità e con una punta di imbarazzo nella voce. La musica nel locale era molto alta, così eravamo costretti quasi a urlarci contro.

«Ti serve un insegnante?»

«Per caso ti stai offrendo?»

«Sono pessimo anche io.»

«Sembrava che sapessi il fatto tuo quel giorno al negozio» gli feci notare con le sopracciglia aggrottate. Lui fece un sorriso di lato e si grattò la nuca.

«Ho iniziato da poco anche io, a dire il vero. Però preferisco le chitarre elettriche.»

Feci un cenno di assenso con il capo, non sapendo più come proseguire la conversazione. Detestavo parlare con gente che non conoscevo, perché ero costantemente a disagio. Speravo solo che Chan continuasse a farmi domande, a rispondere ero brava.

«Non sei di molte parole, l'ho notato anche prima al tavolo. Invece la tua amica Mona è davvero un tipetto interessante, è sempre così esuberante?» Mi chiese proseguendo la conversazione, mentre la fila per il bagno si sfoltiva. Davanti a me c'era ormai una sola ragazza.

«Non sempre» risposi diretta.

Chan annuì debolmente e si guardò attorno. «Vuoi qualcosa da bere?» Mi chiese poi e io declinai la sua offerta. Avevo bevuto troppo, e non volevo ubriacarmi proprio ora che iniziavo a conoscerlo un po' meglio.

«Io vado a prendermi un Negroni, ti aspetto al tavolo.» Sparì nella folla dietro e io mi sentii improvvisamente vuota. Lo avevo appena conosciuto, ma già percepivo la sensazione del caos addosso, sentivo che con lui mi sarei messa nei casini, ancora una volta.

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora