Capitolo Venti

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Il giorno seguente, con il mal di testa atroce e nausea, mi ero alzata dal letto controvoglia. Mamma andava avanti e indietro per tutta la casa, impegnata a riordinare le stanze e aiutare mia sorella a prepararsi per il viaggio della luna di miele. Sembravo uno zombie quando uscii dalla cameretta, con il pigiama di pile fucsia e i capelli ricci tutti annodati.

«Alla buon'ora, principessa» disse mia madre finendo di stirare alcuni panni. Non avevo mai visto il soggiorno così disordinato, con i vestiti sparsi sui divani, oggetti e cose varie buttate sul tavolo.

Daria mi lanciò un'occhiata, sembrava ansiosa ma allo stesso tempo positiva. «Prenditi un'aspirina, devi avere un mal di testa incredibile dopo tutto il vino che hai bevuto ieri.»

«Ho bevuto così tanto?» Domandai colpevole, e potei notare l'occhiataccia di mamma.

«Sei saltata addosso al cameriere perché si era rifiutato di portarti un'altra brocca» rispose Daria divertita, mentre nostra madre aveva un'espressione di disapprovazione.

«Chissà cosa combini a Napoli!» Disse lei continuando a stirare. Se solo sapesse...

«Lasciala stare, è grande ormai.»

«Sì sì, talmente grande che fa tutto tranne che studiare.»

Io e Daria alzammo gli occhi al cielo all'unisono. «Sto studiando» le assicurai sedendomi sul divano, in mezzo ai panni di mia sorella. Lei stava cercando di chiudere la cerniera ad una delle sue enormi valigie.

«Quand'è il prossimo esame?»

«Non lo so» tagliai corto. In realtà lo sapevo, ma non volevo sentirmi la pressione addosso, così decisi di chiudere definitivamente quell'argomento.

Tornai invece nella mia cameretta, mi accostai alla finestra e osservai il cielo sereno di metà mattinata. Era una bella giornata, molto fredda a dire il vero, ma sapevo che non avrebbe più nevicato. La notte che avevo litigato con Chan erano caduti alcuni fiocchi, ma si erano sciolti quasi subito e non erano tornati più. Proprio come non era tornato più nemmeno lui.

Mi lavai e mi vestii, poi chiesi a Silvia di vederci. La raggiunsi a casa sua, in una zona abbastanza tranquilla della città dove ci piaceva passare il tempo. Fin da quando eravamo adolescenti ci riunivamo spesso là, noi e altre amiche, per poi passeggiare e raccontarci le nostre vite.

Ci facemmo un giretto attorno al suo quartiere, osservando le ampie distese di prati umidi e alberi spogli. L'aria era particolarmente fredda, ma il suo tocco pungente sul viso era piacevole. Sentivo le dita congelate, ma anche quella sensazione mi piaceva. Parlai con Silvia di tutto, confessandole ogni cosa e partendo proprio dalla mia decisione di andare in Bielorussia. Mi ascoltò attentamente e poi formulò il suo pensiero, che, come avevo previsto, non era in linea con il mio. Tuttavia, si fidava di me e delle mie scelte.

«Non so cosa dirti sinceramente se non di stare attenta, il mondo non è per niente gentile» mi disse mentre passeggiavamo e io concordai con lei.

«Mi sento come se avessi questa missione da portare a termine. Devo assolutamente conoscerlo, Silvia. Devo rivederlo.»

«L'hai già detto ai tuoi?»

«Ancora no, ma lo farò oggi stesso, quando Daria sarà già partita.»

«Ho l'ansia per te» sorrise aggiustando il cappello di lana sulla testa riccia. «Speriamo bene, dai. Forse capiranno e le cose andranno meglio di quanto pensiamo.»

Non ne ero convinta, ma annuii lo stesso.

Più tardi, tornai a casa. Era l'ora di pranzo, e mangiai quasi controvoglia. Non avevo molta fame e sentivo come un peso enorme sulle spalle e sullo stomaco. Era arrivato ufficialmente il momento di dire la verità.

Ma quando lo feci - proprio come avevo immaginato – i miei genitori rimasero scioccati. Avevo provato in tutti i modi di calmarli, di spiegarli la mia posizione e i miei sentimenti, ma non volevano sentir ragioni. Li avevo delusi profondamente, e non si erano nemmeno curati di nasconderlo. Inizialmente avevano iniziato a parlare a macchinetta, a voce alta, sparando fuori tutti i loro primi pensieri discordanti, ma poi si erano semplicemente rassegnati, e con gli sguardi amareggiati e avviliti mi avevano detto di fare ciò che volevo.

L'unica cosa che mi ero sentita in grado di fare in quel momento era quella di chiudere le valigie il più in fretta possibile e salire sul primo treno diretto a Napoli. Stavo male, e anche molto, e mi dispiaceva di non essere riuscita a far ragionare i miei genitori, ma li capivo, ovviamente li capivo! Continuavo a essere la solita figlia stramba, una totale delusione.

Per un po', seduta sul treno diretto a Napoli, riflettei su quella situazione da un'altra prospettiva, la loro. Era chiaro che per loro era del tutto inaspettato questo mio desiderio di andare in Bielorussia e assistere Dimitri in punto di morte, ma non tanto per i motivi che pensavo io, bensì perché io non avevo mai dato alcun segnale di voler ancora avere i rapporti con il vecchio mondo, con la vecchia vita. Avevo sempre avuto il solito e insopportabile vizio, quello di non parlare, di non esprimere i miei sentimenti. Scrivevo tanti diari, vomitavo i miei problemi sui blog, aspettandomi un aiuto che io non avevo mai nemmeno chiesto, e ora davvero pretendevo che loro mi capissero? Ero io a dover capire loro, ad attendere che si abituassero all'idea, a quella mia nuova ossessione per il passato.

Io non li avevo mai avvertiti del mio malessere, ed ero molto brava a nasconderlo; quindi, era ovvio che per loro tutto ciò fosse una grande quanto terribile novità non affatto facile da digerire.

Il mio treno era appena entrato in stazione e io sobbalzai sul sedile, mi ero appisolata per qualche minuto. Raccolsi la mia roba e scesi con i passi pesanti. Mi sentivo molto stanca. La stazione era gremita di gente, probabilmente erano tutte persone che rientravano in città dopo le vacanze natalizie. Ormai era metà gennaio, e teoricamente anche le mie lezioni erano ricominciate. Ma in quel momento, pensare all'Università era l'ultimo dei miei problemi.

Raggiunsi il mio quartiere dopo aver trascinato la valigia pesante per tutto il corso principale; nonostante il freddo pungente cominciavo a sudare sotto il cappotto e la sciarpa di lana. Salutai il custode del palazzo, il quale mi lasciò in mano un mazzetto di lettere arrivate, probabilmente bollette e qualche pubblicità. Rientrai nell'appartamento che odorava di chiuso e abbandonai la valigia all'entrata. Senza nemmeno togliere le scarpe, andai nel soggiorno e aprii la finestra che portava sul balcone. Mi accesi una sigaretta e osservai il panorama crepuscolare davanti a me.

Poi tornai in casa, e guardai di nuovo quella pila di lettere. Un veloce pensiero su mio fratello mi traversò la mente, così presi immediatamente le lettere e iniziai a guardarle attentamente. Tra esse vi era una diversa dalle altre, e fu proprio allora che sentii il mio cuore esplodere.

Aprii la lettera con le mani tremolanti e iniziai a leggere.

Cara Yuliya,

ho letto la tua lettera e ho aspettato qualche giorno prima di poterti rispondere poiché non ero in forze. Ho preferito scriverti di mio pugno perché qualora non volessi vedermi, almeno ti rimarrà questa lettera e potrai sempre avere un piccolo pezzo di me. Mai avrei potuto immaginare di averti recato un dolore simile, e mi scuso di vero cuore per questo. So che le mie parole non potranno mai ricucire le tue ferite, e dalla tua lettera ho capito quale donna meravigliosa e forte tu sia diventata, mi dispiace di non esserci stato durante la tua crescita, ma non pensi anche tu che forse è stato meglio così? Io non ti avrei mai potuto dare ciò che hai adesso, ma posso cercare di alleviare le tue sofferenze con un ultimo incontro. Kirill non tornerà indietro, quindi questa lettera la leggerei da sola, e da sola prenderai una decisione. Spero che qualunque scelta tu farai, sarà quella giusta.

Con affetto, Dimitri. 

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora