Capitolo Quattro

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Il mattino dopo entrai nel negozio di strumenti musicali che si trovava al centro storico di Napoli. Era piccolino ma confortevole. Le pareti erano ricoperte da chitarre classiche ed elettriche, tutte di colori e stili differenti, mentre al centro vi era piazzata una magnifica batteria. Salutai il proprietario con un sorriso e mi avvicinai timidamente alle chitarre classiche, fingendo di sapere esattamente ciò che cercavo. Nel frattempo, nel negozio erano entrate altre due persone, un ragazzo e una ragazza, probabilmente amici.

Il venditore si avvicinò a me, forse aveva captato la mia tensione e voleva aiutarmi. Mi chiese cosa cercassi e io gli spiegai che volevo semplicemente una chitarra per imparare a suonare. Iniziò a mostrarmi alcuni modelli della Yamaha, Ortega, Fender. Ancora una volta finsi di capirci qualcosa. Il venditore mi mostrò anche le chitarre acustiche e mi propose di provarne una, per testare il suono. Dopodiché iniziò ad elencarmi le differenze tra una acustica e una classica, orientandomi più verso la prima, poiché dal suono più corposo e potente. Consultando i prezzi, ne misi da parte due: una Fender e una Yamaha. Il venditore si allontanò per lasciarmi in serenità a provarle, ma l'unica cosa che riuscivo a percepire era l'ansia addosso. Cosa avrei dovuto suonare? Tanti Auguri A Te? Titanic? La melodia di Harry Potter? Ero nel panico, perché non riuscivo più a ricordare nemmeno una nota. Feci scorrere le dita sulla tastiera, improvvisando un suono completamente sbagliato, toccando tasti a casaccio. Pizzicai le corde, sorprendendomi di quanto fosse intenso il suono e poi mi guardai attorno, nella speranza di non aver attirato l'attenzione di qualcuno sulla mia inesperienza.

Purtroppo, o per fortuna, non fu così. Posato su di me era lo sguardo del ragazzo entrato poco prima insieme all'amica, o chiunque fosse quella bella e sorridente ragazza accanto a lui. Entrambi distogliemmo l'attenzione in imbarazzo, io probabilmente ero già rossa in viso, ma poi ci guardammo ancora una volta e sentii un brivido lungo la schiena. Era molto carino, forse con l'aria da nerd, ma aveva decisamente il suo fascino. Mi accorsi che aveva dei tratti asiatici, con il taglio degli occhi allungato. Mi sorrise, e per poco non feci cadere la chitarra a terra. Tornai nella posizione iniziale, con il corpo rivolto verso la parete opposta e chiusi gli occhi, cercando di regolarizzare il respiro. Speravo con tutto il cuore che non iniziasse a prendere in giro la mia goffaggine con l'amica e che uscisse il prima possibile dal negozio.

Ma ancora una volta, purtroppo o per fortuna, non fu così. D'improvviso sentii una presenza al mio fianco e una voce gentile chiedermi: «Posso aiutarti?»

Mi voltai nella sua direzione e lo osservai completamente in imbarazzo. «Sei per caso un commesso?»

«No, ma ti ho visto in difficoltà.»

«Non sono affatto in difficoltà» risposi acida senza volerlo. Ero a disagio ma inconsciamente speravo che rimanesse ad aiutarmi. Così vicino mi appariva ancora più carino, con i suoi ricci scuri e morbidi, occhi quasi a mandorla castani, labbra sottili e un accenno di barba sulle guance. Avevamo la stessa altezza, ma lui era più magro di me. Indossava una camicia nera e i pantaloni dello stesso colore.

«Tranquilla, non mordo» disse quasi prendendosi gioco di me. Sentii poi il suo tocco sulla mia mano ancora poggiata sulla tastiera della chitarra e lo osservai imbambolata mentre spostava le mie dita in modo tale da formare un accordo. «Prova adesso.»

Suonai l'accordo, ma non avevo la più pallida idea di quale fosse. Sembrava intenso. E ancora una volta incrociai lo sguardo del ragazzo. Era divertito, sicuramente soddisfatto. Cercavo di capire se stesse flirtando con me o volesse semplicemente aiutarmi.

«Avrei scelto l'altro modello della chitarra, ma questo ti dona» disse infine e poi si allontanò. Raggiunse la sua amica, la quale mi guardava corrucciata, e insieme uscirono dal negozio.

Il venditore tornò da me, chiedendomi come stesse andando, ma ero certa che avesse assistito alla scena anche lui. Il negozio era davvero piccolino. Comprai la chitarra che avevo in mano, fidandomi del parere di quel ragazzo estraneo che mi aveva particolarmente colpita, e tornai velocemente a casa, ansiosa di provarla comodamente nella mia stanza, lontano da tutti.

Mandai una foto dell'acquisto a Silvia, e lei ne fu entusiasta, dicendomi che aspettava con ansia il giorno in cui sarei rientrata in Calabria per suonare insieme. Nel frattempo, mi aveva dato il compito di imparare per bene tutte le basi e di suonare alla perfezione tutte quelle melodie che avevamo provato insieme. Mi misi subito all'opera e suonai fino a tarda sera, dimenticandomi perfino di pranzare e di cenare. Avevo le dita in fiamme, crampi alle mani e mal di schiena, ma ero estremamente soddisfatta e felice.

Purtroppo, dovetti abbandonare la chitarra il giorno dopo per rimettermi a studiare, l'esame di storia moderna era molto vicino e io navigavo ancora in acque profonde. Più leggevo il manuale incomprensibile e più dimenticavo le cose imparate in precedenza, ma non dovevo mollare. Chiamai Aurelio per chiedergli di vederci l'indomani in aula studio e lui accettò, anche se avrebbe dovuto seguire una lezione. Studiai intensamente per i successivi dieci giorni, ma la mia mente non abbandonava mai l'immagine del ragazzo misterioso in quel negozio di strumenti musicali. E ogni volta che guardavo la mia splendida chitarra nella camera da letto, il pensiero era sempre rivolto a lui. Chissà se l'avrei mai rivisto.

Il professore di Storia Moderna era un tipo estremamente affascinante e colto, sapeva decisamente il fatto suo, e aveva uno strano tic, ossia toccarsi continuamente il baffetto, rigirandone le estremità. Gesto che era più accentuato quando sosteneva gli esami. Io e una mia compagna di corso, di nome Elvira, avevamo notato che quel tic, mischiato allo sguardo di chi sapeva qualcosa che tu non sapevi, significava che la risposta alla sua domanda non era corretta, ma sperava che la persona in questione se ne accorgesse da sola. Difatti, la ragazza che sedeva di fronte alla scrivania del prof, con le mani sudate e le guance paonazze, stava parlando della rivoluzione militare e della fiscalità statale, quando la domanda, invece, riguardava il mercantilismo. Elvira mi aveva sussurrato nell'orecchio che quella ragazza sarebbe stata bocciata, e chi meglio di lei conosceva quel docente? Neanche la moglie, temo.

Elvira aveva una cotta per lui. Si era seguita i suoi corsi con devozione e attenzione, intervenendo durante le lezioni e scrivendo pagine intere di appunti ogni giorno. Aveva partecipato ad ogni sessione del professore, seguendo quasi ossessivamente i suoi esami, studiandoli nel dettaglio, sia perché voleva sapere di preciso cosa chiedesse durante le sessioni e come si comportava, sia perché era terribilmente innamorata di lui. Eppure, dopo un anno e dopo vari tentativi, non aveva ancora sostenuto quell'esame.

La ragazza fu bocciata, e subito dopo di lei toccava a me. Avevo tanta ansia, paura di fallire e paura di mettermi a piangere davanti a tutti. Quando ero nervosa piangevo sempre, anche se cercavo di trattenermi. E se qualcuno mi faceva notare i miei occhi lucidi, o se qualcuno mi chiedeva il motivo di quel pianto isterico, io aprivo i rubinetti ancora di più. Era un fatto psicologico che io non riuscivo a controllare, fin da quando ero bambina. Piangevo almeno una volta al giorno, di tristezza, frustrazione, imbarazzo o persino di felicità. Qualunque momento della giornata era sempre buono per piangere. Nel corso degli anni ero stata presa in giro parecchie volte per questo, anche e soprattutto dai miei genitori. Loro non capivano che era uno stato di particolare disagio per me, e che continuare a ridere e a dirmi "sei sciocca, ma perché piangi?" era decisamente peggio.

Eppure, non piangevo mai durante i funerali. Al contrario, ridevo. Le ipotesi che potevano stare alla base di un tale comportamento erano tante, dalla paura della morte; quindi, a conseguente esorcizzarla attraverso il sorriso, alla incapacità di riuscire a mettersi nei panni di chi sta dall'altra parte e che ti dà la notizia. Il mio rapporto con la morte, a primo impatto, era del tutto pacifico, ma anche inquietante. Se mi fosse capitato di assistere ad un incidente, avrei voluto sempre essere in prima fila ad osservare il corpo della persona coinvolta; se qualcuno mi avesse raccontato di qualche disgrazia avvenuta, mi sarei immaginata immediatamente l'accaduto, desiderando di essere stata sul posto. Era macabra come cosa, lo sapevo. Guardare in faccia la morte mi metteva i brividi, mi formava un groppo in gola e mi faceva battere il cuore a mille dall'ansia, eppure mi piaceva.

Non superai l'esame, proprio come avevo previsto. Non ero abbastanza preparata, non sapevo tutto ciò che c'era da sapere. Tornai a casa e mi infilai nel letto. Piansi a singhiozzi finché non mi addormentai, risvegliandomi direttamente il giorno dopo.

L'altra faccia della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora