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Sembrava che le pareti della mia stanza si stringessero intorno a me, soffocandomi.
Strinsi il bordo delle lenzuola sentendo delle piccole gocce di sudore scendere sulla mia fronte pallida.
Sapevo che avrei dovuto dormire, ma sapevo anche che per quanto ci avessi provato non sarei riuscita a chiudere occhio.

Allungai il braccio per accendere la luce, coprendomi subito dopo il viso con una mano.
Mi sentii immediatamente sollevata.
Sulla mia porta d'ingresso non c'era nessuno. Nessun mostro, solo l'ombra creata dall'appendi panni.

Che stupida, pensai passandomi le mani sul viso e rimproverandomi per le mie innate paure.

Erano le quattro di mattina del ventuno giugno.
Il soffocante caldo estivo mi stava giocando qualche brutto scherzo.
Di fatto, da quando le temperature si erano alzate avevo la sensazione che la notte non fossi sola.
Sentivo rumori strani provenire dalla finestra, un senso d'angoscia che mi opprimeva il petto quando spegnevo la luce della mia camera.
Sapevo che era la mia immaginazione, che i mostri non esistevano e che se fossero esistiti non avrebbero sprecato il loro tempo a spiarmi.
Eppure il mio corpo agiva da solo. Si immobilizzava e trovava inquietante anche il più piccolo dei suoni.
Era asfissiante.

Passai la notte a fissare il soffitto, buttando ogni tanto qualche occhiata alla porta, giusto nel caso qualcuno entrasse e cercasse di mangiarmi.

«Buongiorno» bofonchiò mio padre scendendo l'ultimo gradino delle scale.
Gli sorrisi posando il piatto della colazione sul tavolo.
«Non hai dormito?» mi chiese addentando un pezzo di pancake, socchiudendo gli occhi per il gusto del dolce. Lui amava i pancake.
Scelsi deliberatamente di ignorare la sua domanda, credendo che la risposta fosse ovvia. Non mi ero ancora guardata alla specchio, ma ero sicura che le mie occhiaie non avessero tardato a farsi notare.
«Alle dieci ho un appuntamento. Credo di tornare verso le sette, gli allenamenti finiscono prima oggi» mi informò posando il piatto nel lavandino.

Mio padre era l'allenatore di una squadra giovanile di calcio. Amava il suo lavoro, e questo mi rendeva contenta. Da quando ero piccola aveva sempre provato a buttarmi nel mondo dello sport, ma solo dopo poco capì che nessuna attività mi interessava particolarmente, nonostante fossi abbastanza agile. Quindi passai la mia infanzia e adolescenza ad essere curiosa e vogliosa di imparare.
Più volte avevano provato a farmi partecipare a gare di intelligenza, di matematica, di fisica, di scrittura. Tuttavia, non mi ero mai interessata a certe cose. Mi piaceva sapere, ma solo per il gusto di farlo.

«Volo a prepararmi» mi scompigliò i capelli affettuosamente prima di andare al piano di sopra.

Poco dopo uscimmo di casa insieme.
«Laila» mi richiamò prima che potessi uscire dall'auto.
«Potresti portare questo a Sophie? Non è niente di che...un pensierino per il suo compleanno»

«Papà, il suo compleanno è stato a gennaio» lo informai sorridendo appena.
Pareva che mio padre si fosse preso una bella cotta per la signora Stevenson, una donna molto particolare, che però, a sua discolpa, non lo calcolava di striscio. Mio padre era giovane e bello, e non si faceva mai scappare nessuna occasione quando si parlava di donne.
«Si? Beh...un po' in ritardo. Assicurati di informare Gloria della mia gentilezza» mi fece un occhiolino e io scossi la testa rassegnata.
Essere un padre single aveva i suoi vantaggi.

«Ti voglio bene» gridò sporgendosi dal finestrino dell'auto. Sorrisi salutandolo con la mano.

Sospirai contenta e misi piede nell'ospedale, venendo immediatamente travolta dal tiepido odore di pulito e disinfettante per ambienti.

Cronache del buio - Peter PanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora