Lisciai le mani sul tessuto morbido del mio pigiama bianco di seta e mi godei il contatto con esso. Avevo cercato mio padre in giro per la casa ma, essendo le due di notte, avevo immaginato fosse da qualche parte a fare baldoria. O forse a cercarmi.
Nel frattempo avevo deciso di fare un bagno caldo giusto per bearmi del profumo familiare del mio bagnoschiuma.Mi resi conto di essermi addormentata solo quando fui svegliata bruscamente dal suono della mia sveglia che segnava le sette in punto e che spensi frettolosamente facendola rotolare per terra. Saltai in piedi come un molla e corsi al piano di sotto, impaziente.
L'odore del pane tostato si sentiva fino alla mia camera e poteva significare solo una cosa: mio padre era a casa.Raggiunsi la cucina e lo vidi mentre mi dava le spalle. Si stava abbuffando di cibo come se non mangiasse da una settimana e ciò mi portò a sorridere leggermente. Manifestai la mia presenza schiarendomi la gola e quando si girò verso di me trattenni a stento un sorriso.
Era pallido come un cadavere e due occhiaie scure gli contornavano gli occhi. Sembrava non avesse dormito affatto e credetti fosse perché si era preoccupato per me. Chissà cosa avrà pensato, chissà quanto era stato male quando non mi aveva vista tornare a casa quella notte.Mi tuffai fra le sue braccia senza ripensamenti e lo strinsi a me con un amplio sorriso sul viso.
«Ciao...» mormorò un po' scosso, ricambiando l'abbraccio in maniera impacciata. Come avrei fatto a dirgli che non sarei potuta rimanere? Come avrei potuto lasciarlo qui da solo, ancora una volta?
Tornai a guardarlo e finalmente potei constatare quanto mi fosse mancato. Mi mancava la sua voce, il suo profumo, le sue battute squallide e la sua allegria contagiosa che mi sembrava di non aver mai apprezzato veramente fino a quel momento.
«Laila dorme?»
Il mio sorriso si affievolì pian piano. All'inizio non capii, ma poi pensai che mi stesse solo prendendo in giro.
Conoscevo mio padre, sicuramente era uno dei suoi soliti scherzi un po' infantili.«Non ti sono mancata?» gli chiesi con il cuore a mille e gli occhi che luccicavano di speranza.
Ma lui non rispose come mi sarei aspettata. Si limito ad inclinare la testa e a guardarmi di sbieco con un cipiglio confuso.«Perdonami, non ricordo di averti mai vista. Sei un'amica di Laila, no?»
«Non scherzare...» mormorai speranzosa, ma invece di scoppiare a ridere come avrebbe fatto dopo uno dei suoi scherzi continuò a guardarmi in quel modo, come se fossi un'estranea.
Mi sentii come se mi avessero pugnalato allo stomaco. Che significava?«Papà, sono io» tentai avvicinando una mano al suo viso, credendo stupidamente che il contatto familiare avrebbe risvegliato qualcosa in lui. Ma a quanto pare la mia vita non era una fiaba e lui si scansò bruscamente riservandomi uno sguardo scioccato.
Ritirai la mano lentamente con un vuoto nel petto e i pensieri che mi gridavano di scappare e piangere fino a prosciugarmi l'anima.
Mio padre non mi riconosceva. Mi sembrava di vivere un incubo dal quale non potevo risvegliarmi e le mani che tanto mi pregavano di tremare e sfogarsi vennero nascoste dietro la schiena sotto una maschera di apatia.«Scherzavo Signor Clarke» mormorai con un sorriso tirato.
Lui continuò a fissarmi come se fossi matta anche mentre indietreggiavo e raggiungevo la porta d'uscita.
Quando la richiusi dietro di me il mio corpo si lasciò andare ad un tremolio dovuto sia al freddo che allo shock. La mia mente era così annebbiata che non riuscii neanche ad elaborare tutte le emozioni che stavo provando, così che si fusero tutte insieme lasciandomi con un unico senso di smarrimento a sorreggermi.Volevo credere che Pan mi avesse ingannata o che mi avesse rifilato uno dei suoi malvagi scherzi, ma in cuor mio sapevo che non era così. Il problema era che non sapevo niente. Non sapevo perché mio padre non mi avesse riconosciuta e tutte le ipotesi che avevo formulato nella mia testa non seguivano quel filo logico che tanto ricercavo.
Misi piede nell'ospedale che mi era tanto familiare venendo subito investita dal solito profumo di pulito. Dagli sguardi che mi rifilarono i presenti dovevo sembrare una pazza, con il pigiama, scalza e con la faccia sconvolta.
Mi avvicinai al bancone dove usualmente sedeva Rita, ma subito potei capire che neanche lei avesse la più pallida idea di chi fossi. Mi osservava con una punta di preoccupazione celata dietro allo sguardo sarcastico e saccente, con la penna in una mano e un documento nell'altra.«Posso aiutarti, cara?» mi chiese apprensiva squadrandomi dalla testa ai piedi, probabilmente per cercare qualche segno di violenza.
«Dovrei...dovrei visitare un paziente. William Kiev» balbettai.
«Sei una parente?» mi domandò con uno sguardo così dolce che stentai a credere fosse realmente lei.
Annuii distrattamente mentre mi guardavo intorno, e solo a quel punto notai una cosa che per poco non mi fece svenire sul posto.
L'orologio grande della sala segnava le diciassette e un quarto del ventidue giugno.Era passata solo una notte. Una notte da quando ero stata catapultata in un altro mondo, una notte in cui avevo visto l'inferno e tutte le sofferenze che il cuore umano potesse reggere. Mio padre non sapeva nulla. Nessuno si era accorto che fossi sparita e nessuno mi avrebbe cercata.
Rita interruppe i miei pensieri ossessivi.
«Mi dispiace cara...ma è deceduto due settimane fa» mi disse prendendomi una mano e stringendola forte.
La ritirai velocemente come se mi fossi scottata.Presi a fissare il pavimento come se avessi desiderato sprofondarci dentro.
Le labbra di Rita si muovevano ma da esse non proveniva alcun suono. O almeno era quello che credevo, perché la voce nella mia testa sovrastava ogni sua parola.Perché mi sta accadendo tutto questo? Perché proprio a me?
Corsi via da li.
Ero impazzita. Ero convinta che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, che mi stessi immaginando tutto perché non poteva essere reale. Le ultime convinzioni che avevo erano state schiacciate e stramazzavano al suolo insieme al mio buon senso. Non riuscivo ad accettarlo.
Sentii addosso il peso di tutti gli avvenimenti delle ultime settimane e capii di aver finalmente mollato.Raggiunsi il carrello dei farmaci ed evitai i richiami dell'infermiere che mi aveva vista rubarne un flacone. Mi chiusi in bagno e, una dopo l'altra, ingoiai le pillole di Ertapenem che strisciavano nella mia gola come lamette.
Ignorai le grida e il bussare fuori dalla porta; l'avrebbero sfondata in pochi secondi in ogni caso.Non sentivo più nulla se non il suono ovattato dell'aria mentre il mio corpo tremava come una foglia fino a farmi avvertire un senso di vertigine che mi buttò a terra. Neanche ci provai a rimanere cosciente. Anzi, speravo con tutto il cuore che quella sarebbe stata la mia fine. E provavo in tutti i modi a convincermi che quel desiderio fosse dettato solo dallo shock ma non ci riuscivo.
Non volevo vivere in quel modo. Non volevo soffrire, ma sapevo che la mia vita era destinata a quello: una lunga e sofferente agonia.Oppure era tutto un pretesto. Mi sentivo pazza, fuori di testa, inutile, sconvolta, e le forze per lottare le avevo esaurite tutte.
Forse mi ero immaginata tutto. Forse avevo perso il senno e non esisteva nessun Pan, nessun Isola. Forse ero sola con me stessa ed era tutta colpa mia. Non potevo accettare di essere così sbagliata, di sentirmi fuori luogo, io che credevo di avere tutto sotto controllo e che ero sicura di poter manovrare i miei stati d'animo. Io, che avevo spremuto così tanto il cervello da non riuscire a comprendere qualunque cosa non avesse una spiegazione razionale o un fine.
Io che avevo sempre avuto tutte le risposte nel palmo della mia mano, ora che queste mi erano scivolate desideravo solo sparire.
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Cronache del buio - Peter Pan
FanfictionAlzai lentamente lo sguardo sulla figura che si prestava davanti a me, a qualche metro di distanza. Un ragazzo, con la schiena poggiata su un albero, mi osservava con curiosità. Solo dalla sua postura potevo notare una certa sicurezza, quasi arrogan...