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Sospirai silenziosamente.
Pan mi aveva portato in un luogo che aveva tutta l'aria di essere un accampamento.
Le numerose tende erano molto vicine tra di loro e alcune di esse erano così malconce che sembravano sul punto di crollare.

Tutti gli sperduti avevano smesso di fare qualunque cosa stessero facendo prima del mio arrivo, e mi stavano fissando da più di dieci minuti.
Chi sorpreso, chi infastidito.
Potei riconoscerne uno in particolare, che mi lanciava occhiate fulminanti mentre affilava la lama di un pugnale.
Il segno del mio morso era ancora visibile, tanto che gli aveva lasciato una bella cicatrice.

Pan non sembrava interessarsi del momento a dir poco imbarazzante, e continuava a sgranocchiare la sua mela come se fosse tutto normale.

«Devi proprio farla stare qui con noi?» sbottò uno di loro «Non potevamo lasciarla nelle gabbie? Mi sembra il posto più adatto a lei, porta solo guai» assottigliò lo sguardo verso di me, e io non esitai a ricambiare l'occhiataccia.

Pan non si degnò neanche di guardarlo.
«Parli proprio tu Zav, che hai tutte le abitudini tranne quelle buone»

Qualcuno ridacchiò, altri distolsero semplicemente lo sguardo.
Lo sperduto cercò di mascherare il suo volto umiliato con un'espressione ostile rivolta alla sottoscritta.

Lo ignorai, cercai per lo più di distrarmi studiando con attenzione ogni grumolo di terra sulla quale ero seduta.
Stare in presenza di quei ragazzi senza provare a fuggire mi sembrava strano. Quasi surreale.
Non volevo credessero che mi fossi unita a loro o che mi fossi arresa.
Non saremmo mai stati alleati.

Tuttavia, avevo bisogno di riposare, finalmente, per qualche ora. Le palpebre mi si chiudevano da sole, e la fresca brezza della notte aiutava a rilassarmi ancora di più.

Mi sforzai di tenere gli occhi aperti. Mi sarei concessa un attimo di pace solo dopo che tutti fossero entrati nelle loro tende.

Nel frattempo, la tensione era palpabile.
Era abbastanza ovvio che non fossi la benvenuta, e magari mi sarei davvero sentita più a mio agio come prigioniera che come ospite.

«Che ne dite di un po' di allenamento?» chiese Felix, scambiandosi un'occhiata con gli altri sperduti. Tutti sorrisero in modo sinistro, rigirandosi i propri pugnali tra le dita.

Lo sguardo del biondino si posò su di me.
Mi offrì un coltello, guardandomi dal basso.

Non mi mossi di un millimetro, sentendomi leggermente intimorita.
Volevano prendersi gioco di me.
Sentivo ogni battuta, ogni sorrisetto sprezzante che cercava un qualche tipo di vendetta.

Pensai a quanto fossero ridicoli. Era ovvio che non sarei riuscita a battere nemmeno uno di loro; anche il più magro tra tutti era comunque il doppio di me, e non si sarebbe neanche dovuto sforzare per buttarmi a terra.

Quando lo sperduto capì che non mi sarei mossa rimise il coltello nella sua cintura.
«Si può fare anche senza, se sei così coraggiosa»

Uno di loro mi prese per un braccio e mi alzò bruscamente, spingendomi verso un ragazzo che impugnava la sua arma in modo non molto amichevole.
Sicuramente era più alto di un metro e novanta, e quei quaranta centimetri di differenza non mi resero più tranquilla. Inoltre, avevo l'impressione che se avesse voluto avrebbe potuto spezzarmi in due senza neanche impegnarsi.

Pan, nel frattempo, si faceva gli affari suoi.

Indietreggiai di qualche passo, senza riuscire a nascondere la mia insicurezza.
Mentre il ragazzo si preparava ad attaccare sentii il respiro accelerare e una forte adrenalina percorrermi.

Riuscii a schivare il primo colpo, facendo subito dei lunghi passi indietro per mettere più distanza possibile tra di noi.
Lui ridacchiò.

Avevo il fiatone, più per la paura che per lo sforzo.

Quando caricò verso di me una seconda volta riuscii a sfilare il pugnale dalla sua cintura passando sotto il suo braccio.
Indietreggiai nuovamente dopo la mia mossa, cercando di prendere tempo.

Nel frattempo, gli sperduti sembravano parecchio divertiti. C'era addirittura chi si teneva in due dalle risate, deridendo il ragazzo davanti a me che non mi aveva ancora accartocciata come un foglio di carta da buttare.
Ero consapevole che lui non si aspettasse che io fossi così veloce.

In realtà, quella era forse l'unica cosa su cui potevo contare.
Finché fossi riuscita a schivare i suoi attacchi, magari non mi sarei fatta troppo male.

Ma purtroppo ogni volta che non riusciva a colpirmi diventava sempre più feroce, tanto che stavo iniziando a faticare a sfuggirgli.

Dopo qualche minuto riuscì a prendermi.
Mi scaraventò a terra, bloccandomi entrambi i polsi con le mani impedendomi così di usare il pugnale contro di lui.
Mi tirò un pugno sul labbro così forte che non riuscii a non emettere un lieve verso di dolore.
Alzai il ginocchio colpendogli le parti basse, ma neanche questo gesto riuscì a staccarmelo di dosso.
Un altro pugno, sempre sullo stesso punto, e mi sentii completamente impotente.

Con la coda dell'occhio notai Pan irrigidirsi sul posto.
Strinsi gli occhi per un attimo, frustrata.
Per quanto ci provassi non ero neanche lontanamente vicina a liberarmi.
Nel mentre che caricava il colpo che credevo mi avrebbe stesa definitivamente, Pan lo richiamò.

«Basta così»

Tutti gli sperduti emisero un verso di disapprovo.
A quanto pare gioivano parecchio del mio dolore.

Mentre il ragazzo si alzava mi lanciò uno sguardo divertito. Lo fissai ostile.

«Nelle tende» ordinò Pan, facendo dileguare ogni ragazzo nel giro di pochi secondi.
Io, che ero rimasta a terra cercando di riprendermi, riuscii finalmente a sollevarmi sugli avambracci con un espressione dolorante.

Tornai a sedere, prendendomi qualche secondo per riprendere fiato. Sentivo il labbro pulsare e tutta l'adrenalina lasciare il mio corpo.

Provai una rabbia smisurata per quegli imbecilli che avevano preso l'occasione di darmi una lezione.

Nel frattempo, percepivo lo sguardo del ragazzo che intanto si era alzato e si era fermato accanto a me.
Non lo guardai.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo.

«Come ho già detto, essere veloci non basta» iniziò, serio. Dal suo tono di voce sembrava quasi che mi stesse rimproverando.

Sospirai.
Non mi serviva una ramanzina in quel momento.
Sentivo il sangue che che mi colava sul collo, il corpo debole e il fiato corto.

«Viglio dieci piegamenti»

Stavolta lo guardai, stralunata.
Era una richiesta assurda, e totalmente fuori luogo.

Quella frase mi confermò che quel ragazzo era completamente fuori di testa.

Vedendo la mia espressione stranita, il suo sguardo si indurì ancora di più.

«Sai farli?» mi chiese, quasi impaziente.

Scossi la testa lentamente, pensando a quanto quella conversazione fosse surreale.
Sembrava una cosa che mio padre avrebbe chiesto ai suoi allievi, e il solo paragone mi fece stringere lo stomaco.

Avevo già chiarito la cosa.
Non sarei diventata una di loro, di conseguenza, Pan non avrebbe dovuto insegnarmi a fare niente.
Se i suoi ragazzi avessero voluto tormentarmi avrei fatto del mio meglio per reagire. Ma se quella doveva solo essere una scusa per obbligarmi a stare al suo gioco, poteva star certo che non avrei ceduto così facilmente.

Mi guardò severamente con un sopracciglio alzato.
«Riposa» mi ordinò.

Con un unico movimento della mano fece apparire una tenda perfetta accanto alle altre.

Poi, senza curarsi del mio sguardo scioccato, mi lasciò da sola.

Cronache del buio - Peter PanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora