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Chiusi la porta con cautela.
Avevo passato l'intero pomeriggio a studiare i perfidi disegni di William, scoprendo ad ogni sfumatura un nuovo tipo di inquietudine.
Nonostante l'uso di colori che non fossero il grigio, si poteva sempre scorgere una sottile figura, tanto piccola quanto rigida e crudele.
Non riuscivo a smettere di pensarci.
I dettagli erano imprecisi ad un occhio inesperto, ma il modo in cui le chiazze confuse di colore si mischiavano tra di loro nascondeva un'oscurità inimmaginabile.

21.30

«Papà?» chiesi posando il telefono vicino all'orecchio.

«Tesoro, ti dispiace se non riesco a venirti a prendere? Ho avuto un imprevisto...insomma, un impegno improvviso» sentii a malapena la sua voce coperta da musica e risate sfrenate.

«Ok» terminai la chiamata, senza dargli il tempo di aggiungere altro.

Sbuffai gettando il telefono nel mio zaino con poca grazia. Il pensiero di dover prendere l'autobus per tornare a casa mi irritò.
Ero stanca, non mangiavo da tanto e non avevo proprio voglia di camminare per venti minuti mentre mio padre si divertiva chissà dove.

«A domani» salutai Rita sistemando lo zaino sulla spalla.

«Ti hanno lasciata di nuovo a piedi?» ridacchiò lei sistemandosi gli occhiali sul naso.

Alzai le spalle.

«Ricorda a quell'imbecille di tuo padre che hai sedici anni, non trenta» alluse al buio fuori.

Non avevo trent'anni, ma sapevo di potermela cavare da sola. Mi era capitato di essere seguita fuori dall'ospedale, ma alla fine ero riuscita a non farmi più trovare. Ero parecchio brava a nascondermi, nonostante il buio mi facesse venire i brividi.

Le sorrisi un'ultima volta e lasciai l'edificio.

C'era un cane legato alla sbarra delle scale.
Pelo chiaro e corto, niente collare. L'avevano legato con una semplice corda, stretta intorno al collo.

Arricciai il naso.
Pensai a quanto potesse essere pericoloso e sconsiderato usare una corda per portare a spasso il cane. Nonostante ciò, non sembrava affatto dispiaciuto. Scodinzolava allegro, fissando con insistenza la merendina che tenevo in mano.

«I cani non mangiano zuccheri» mormorai lanciandola ai suoi piedi, ed iniziai a camminare.

Solo dopo un paio di passi notai una piccola figura con la coda dell'occhio.
Lo fissai, colpita, e solo dopo notai uno spesso pezzo di stoffa penzolare dalla finestra del terzo piano.

Lui non guardava me. Fissava il bosco, inerme, con le palpebre che sbattevano lentamente.

Indossava il suo pigiama grigio, ed era a piedi nudi.

«Avevo davvero ragione» mormorò senza guardarmi. Strinse il pezzo di carta che teneva in mano, e dagli angoli che fuoriuscivano dalla sua piccola mano potei intravedere le sfumature scure di uno dei suoi disegni.

Rimasi in silenzio.
Lo guardai mentre si incamminava verso il bosco, con una sicurezza raggelante.
La confusione mi bloccò i piedi a terra.

Quasi sobbalzai quando sentii la porta di vetro sbattere dietro di me e vidi uscire una Rita con i capelli scompigliati e il fiatone, che quasi cadde quando la stampella le si impigliò alle erbacce umide.

«Che aspetti» ansimò con una mano sul petto «va a prenderlo!»

Ma perché tutte le responsabilità dovevano sempre ricadere su di me?
E io che non vedevo l'ora di tornarmene a casa e dormire per dieci sanissime ore.

Camminai velocemente verso di lui, che ormai era già entrato nel fitto e buio bosco.
Buio.
BUIO.

Proprio io che ne ero terrorizzata dovevo vedermela da sola.

Cronache del buio - Peter PanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora