Ottavio Landolfi era nello studio di casa, assorto in una miriade di riflessioni: incespicava nell'ingorgo ricorrente, precipitava nei sotterranei, si smarriva nel dedalo di corridoi, veniva risucchiato dal tunnel del passato. Renata Aldobrandi. La sua psicologa. La donna che l'aveva fatto uscire dal vicolo cieco del dolore. Che bizzarro il destino! Quando aveva rivisto Renata all'Angolo del poeta dedicato a Keats non aveva mosso ciglio. Enrico aveva fatto le presentazioni e loro due si erano comportati da perfetti sconosciuti. Enrico aveva voluto conoscere anche Dora e forse pensava che sua moglie potesse esserle d'aiuto, ma l'inferma rimase passiva come sempre. Ottavio aveva nuovamente rivisto Renata alla presentazione del saggio di Enrico, che aveva lui stesso introdotto, e, poi, non li aveva più cerca- ti. Chiamare di nuovo l'amico, passeggiare, parlare con lui lo aveva rinfrancato.
Renata rimaneva fuori dal loro rapporto di amicizia e, del resto, il professore non poteva farsene una colpa. Non sapeva affatto che Renata fosse sua moglie. Chi poteva immaginarselo? Gli avevano consigliato questa dottoressa alcuni parenti dopo la morte di Tommaso. Una volta morto il marito, anche Virginia gli aveva chiesto un consiglio per la figlia Sibilla e lui le aveva dato il numero dello studio di Renata.
Quando si era recato la prima volta da lei, Ottavio, naufragate tutte le sue certezze, si era sentito anche lui smembrato: tutto il suo essere sparpagliato a terra accanto al corpo di Tommaso o di quello che ne rimaneva, e al corpo di Dora con gli arti spappolati per sempre.
Con l'analisi, aveva tentato di raccogliere tutte le proprie parti. Quando il tentativo sembrò riuscire, si accorse di amare Renata. O meglio di adorarla, di non potere fare a meno di lei. Lei, deontologicamente corretta, fu chiara, cercò di riportare la terapia sulla strada maestra, ma non riuscì nel suo intento. Rifiutò le richieste del paziente e dell'uomo.
Oggi devo ringraziarti, Renata, disse fra sé Ottavio. Eppure, ti ho odiato! Ho provato per te emozioni contrastanti.
Aveva appena finito di ascoltare una delle sue sinfonie preferite, la terza di Gustav Mahler. L'aveva perseguitato in quegli anni difficili, tormentati. Nella prima mezz'ora, una sorta di rondò con l'ossessiva marcia. Poi un minuetto allucinato, una cornetta esterna, un contralto, un coro infantile e femminile. Infine, l'Adagio che pur raggiungendo un'acme centrale scorre con sublime placidità facendo riconciliare chi ascolta con il proprio sé.
Quando ascolti la musica che ami, il cuore ringrazia. L'ascolto del brano preferito produce endorfine, i neurotrasmettitori della felicità. Chi era il professore Ottaviano Landolfi? Nella costellazione fa- miliare, un cielo gravido e tenebroso. Era stato concepito in tempo di guerra, ma era nato a guerra finita. La gestazione era stata difficile per sua madre: il marito era un partigiano, ma era tornato a casa e dopo Ottavio nacquero altri due maschi. La mamma lo diceva con orgoglio. Spesso e fino alla fine dei suoi giorni: i maschi mi riescono bene, non è da tutte! Alludeva alla zia Clementina, sua sorella, che invece aveva sfornato quattro femmine, una dietro l'altra. Forse gli echi della guerra si erano condensati nel grembo materno, contaminando inesorabilmente il suo spirito. Lo spettro della morte lo aveva rincorso e lo aveva privato del bene più prezioso: suo figlio. Tommaso era uscito per sempre dalla sua prospettiva e marciava per l'eternità, non sapeva verso cosa. Un sentiero di bellezza, si augurava. Nella compatta architettura della sinfonia, nella materia musicale, la tensione della vita si era allentata, dolcemente. Scampati alla brutalità del mondo, residui di un'umanità maturata e rinnovata.
Taci, anima, stanca di godere e di soffrire. Qual è il destino del poeta su questa terra desolata? Deve morire o vivere?
Nel bisogno profondo di dare un nuovo corso agli eventi, un nuovo ordine alla sua vita, Ottaviano era sopravvissuto. Aveva studiato in collegio. L'unica possibilità per lui, nonostante le preoccupazioni di suo padre per i religiosi... Aveva imparato a essere autosufficiente e difendersi fin da piccolo. Un percorso puntellato di rovine, disseminato di spine, ma brulicante di profumi e firmamenti. L'ingerenza, la corrosione, il disfacimento, la banalità, lo sgomento, la lacerazione. Un corteo di ricordi sfilava nei cunicoli della mente-
Si mise la mano nei capelli grigi, ancora lunghi e folti – erano un vanto per la sua età – e sorrise con la solita smorfia che le labbra sottili producevano portandosi dietro un doppio solco all'angolo della bocca. Tolse gli occhiali e socchiuse gli occhi chiari che spesso languivano nelle pupille.
Anni fa era riuscito ad assistere al concerto di Tilson Thomas all'Accademia di Santa Cecilia. Era la terza Sinfonia, che ora aveva appena ascoltato.
Aveva cercato sempre nuove forme d'arte e di questo poteva ritenersi soddisfatto. L'arte aggiunge sempre qualcosa alla nostra vita che si espande. Aveva provato a esorcizzare la paura della morte con i mezzi di cui disponeva. Ricordava Dora quando era giovane, non bella ma fresca, vitale. Dopo la tragedia, riusciva a trasmettere soltanto l'eredità di quella sofferenza che, testimone silenziosa de- gli eventi, aderiva in modo perfetto alla sua non presenza.
La fuga è il meccanismo di difesa più facile, che spesso priva gli individui della propria consapevolezza. A volte si può scappare via rimanendo immobili. Far perdere le proprie tracce, far morire una parte di sé scomparendo nel silenzio. Dora aveva cercato di cancellare quella se stessa che era mutata dopo l'incidente; non era riuscita ad accettare la morte del figlio, né la propria infermità. La paralisi era passata dalle gambe al cuore, alla mente. L'unico modo che ave- va trovato per tenere legato Ottavio, per fargli sentire il peso schiacciante della colpa. La sintesi estrema del senso di non appartenenza a questo mondo reale la spingeva a escludere gli altri fagocitandoli. Il rancore interiore, da cui non riusciva a liberarsi, arricchiva ogni giorno la bestia infida senza proporzioni, né latitudine e longitudine. Una dilatazione patologica della propria perdita. Tommaso, il figlio amato, desiderato, voluto con tutta se stessa. Un ammasso di carne floscia e ammuffita. La parte ribelle e arcaica dell'essere soggetto capace di movimento resta imprigionata nella voragine del non luogo. Nei suoi occhi, si concentrava un mondo intero che dava voce all'inquietudine del buio in cui versava l'anima.
Ottavio non si era arreso, aveva chiesto aiuto, l'aveva ricevuto. Si era trovato in un nuovo marasma dopo l'interruzione della terapia. Si era rifugiato nell'arte, nella poesia, nell'insegnamento. Aveva trovato l'amore vero: Virginia. Renata era stata l'ancora alla quale aggrapparsi.
Lo strappò dalle divagazioni lo strillo acuto della badante albanese:
«Professore, professore!».
Allarmato, Ottavio balzò dalla poltrona e si fiondò nella stanza da letto. La badante-infermiera lo guardò e disse:
«Ha finito di soffrire!».
Ottavio rimase disorientato. Nonostante la precarietà delle condizioni della moglie, non si aspettava la dipartita in quel momento preciso della loro vita. Il corpo inerme della donna che aveva sposa- to e dalla quale aveva avuto un figlio giaceva in quel letto testimone di una lunga sofferenza: arti atrofizzati, blocco intestinale, calcolosi renale. Tutte conseguenze della lesione al midollo spinale. Non c'era più nulla da fare. Dora aveva capito di doversene andare. Era arrivata l'ora giusta, se può esistere l'ora giusta della morte.
I parenti, i pochi rimasti, erano lontani.Toccava a lui pensare a tutto.
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Scritto nell'acqua
Romance"Scritto nell'acqua" è un romanzo d'amore il cui filo conduttore è la poesia di John Keats, che ci porta lungo la colonna sonora della vita, a Roma, nei luoghi simbolo di un percorso interiore o viaggio dell'anima: la scuola di danza del ventre, la...