Come uccelli leggeri fuggon tutti i miei pensieri...

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La massa amorfa che lo stava risucchiando man mano cominciò a plasmarsi nel volo libero della mente affollata. Uno alla volta, obbedendo a un comando divino o a un semplice soffio dell'aria, i pensieri si staccavano. Andavano a posarsi agilmente, dopo avere fluttuato leggeri, nei cassetti della memoria. Si riaprivano e si chiudevano a intermittenza, senza forzatura alcuna: ora una camicia, un rimpianto, poi un pigiama, una nostalgia, e così via.

Ottaviano Landolfi, professore di lettere classiche in pensione, esattamente da otto mesi e dieci giorni, girava e rigirava tra le mani callose il manoscritto, lo scrutava, con aria torva e allo stesso tempo devota.

La libreria di casa si poteva definire un capolavoro, e guai se non fosse stato così dopo tutto il tempo impiegato nell'impresa di un intero anno. Si era trasformata, giorno dopo giorno, in un regno incantato popolato da strane presenze, nel quale sperimentare la fatale attrazione umana per l'altrove.

In quella stanza, si era materializzato il centro della terra attraverso cui il professore viaggiava regolarmente: nel cuore umano del- la crosta terrestre. Era diventata l'isola felice, dove facevano capo- lino cascate di luce e stormi di uccelli in festa, alla quale rimettersi per non morire. Qui chiedeva asilo, confezionando nuovi giorni da vivere, nel preludio di una ovattata pace che stemperava la tempe- sta. Un'evasione terrena, il prodigio di un nascondiglio che con i suoi segreti annunciava un destino, che lo riportava alla fine o all'origine. Il potere sovrano di un miraggio festante o di un oscuro presagio.

Gli scaffali in legno massiccio erano costati un capitale, nono- stante l'amicizia con il falegname vicino di casa. Professo', ma se voi volete il meglio... Certo che lo voleva per i suoi libri! I libri per Ottavio erano tutto.

Le pareti occupate erano due, dal pavimento fino al soffitto, per tre di altezza. Era una casa di vecchia costruzione con stanze molto ampie. Il tinello soleggiato con il cucinino funzionale, il salotto buono, due bagni, due camere da letto. E lo studio, naturalmente, fiore all'occhiello.

Da quando Dora aveva cominciato a peggiorare, e si trattava or- mai di anni, la stanza, che era stata di Tommaso, era diventata la sua, così come il bagno adiacente.

La stanza dello studio era, fra tutte, la più spaziosa: le capienti scaffalature a muro concedevano abbondante spazio alla scrivania, alla sedia girevole e a due poltrone a fiori color pastello, separate da un paralume in tinta, alto, con piantana in legno. Lo avevano voluto così, lui e Dora. Una piccola biblioteca tutta per noi, con i libri che preferiamo e da leggere insieme: così si erano detti.

Ma da quando Tommaso era morto, Ottavio era rimasto a leggere da solo. Dora non aveva più messo piede in quella camera, come in nessun'altra di quella casa, che era diventata sinistramente vuota e muta. Dora era rimasta chiusa nel silenzio, nell'infermità della paralisi, nella stanza di dolore, aggrappata al letto matrimoniale che di matrimoniale non aveva più nulla. Perfino quando Ottaviano ascoltava le sue musiche preferite – la lirica era sempre stata una sua passione – aveva preso l'abitudine di farlo con le cuffie. Non voleva rompere il silenzio opprimente che aleggiava, simile alla presenza spettrale della morte, per ricordare che era passata di là, che aveva lasciato il segno o, meglio, che si era portata via qualcuno.

Dora e Tommaso quel venerdì tornavano insieme a casa; lei in- fatti era andata a prenderlo a scuola, a piedi. Di solito era compito suo, ma quel maledetto giorno Ottavio aveva la febbre e Dora era andata con il sorriso ad aspettare il figlioletto.

Scritto nell'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora