Episodio 7: Estate è inverno è estate

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Neanche la neve
uccide il convolvolo
Luce del sole

- Matsuo Bashō


Quando Tenryu andò a dormire dentro il futon nella sua stanza, ai piedi della finestra e del giardino e del cielo buio e del caldo di un agosto schiacciante, già sapeva che quella sarebbe stata l'ultima notte di sua madre sulla terra.

Viveva da solo in quel meraviglioso appartamento di legno antico ormai da sette mesi, cioè da quando sua madre era stata portata in ospedale. Allora, suo padre aveva deciso che lui fosse ormai abbastanza grande da poter lasciare l'appartamento dei genitori e trasferirsi lontano dai suoi occhi, all'esterno della residenza imperiale vera e propria, in una bassa costruzione nel primo cortile, dentro una serie di stanze che per secoli avevano ospitato alti funzionari, ma mai un membro della casa imperiale.

Molti adolescenti farebbero salti di gioia all'idea di poter vivere da soli senza i genitori tra i piedi, specialmente se allo stesso tempo, in qualità di principi imperiali, avessero comunque a disposizione un precettore, una guardia personale e uno stuolo di inservienti che si occupano silenziosamente di tutte le necessità materiali. Ma quando succede veramente, e a soli tredici anni, il risultato è un senso di paura e di solitudine contro cui il principe aveva lottato a lungo e continuava a lottare.

È vero, il padre era ancora lì nel palazzo; bastava presentarsi con qualche inchino al posto di guardia, sotto il muro che separava quel cortile da quello più interno, per chiedere udienza e poter essere ricevuto. Inoltre c'era il maestro Mutsu, ormai il suo tutore e la persona a cui rivolgersi per ogni necessità in qualsiasi momento. C'era la sua guardia personale, c'erano le altre guardie, c'erano gli altri insegnanti, c'erano camerieri e governanti che andavano e venivano. Di fatto, però, in quelle stanze Tenryu era un prigioniero solitario; e poi, c'era la notte.

La notte era tutta per lui e per i suoi giovani demoni. Lo era stata sempre, lo era di più da quando era finito in quelle stanze, e lo era ancora di più in un'occasione come quella.

In quella notte così triste, Tenryu avrebbe voluto ritornare bambino e riavere la sua infanzia, i suoi genitori ancora insieme, una sensazione di luce e di calore che gli mancava da troppo tempo; ma non era possibile. In alternativa, fece l'unica cosa che si possa fare da soli: sognò.

Tenryu si addormentò e sognò di fuggire via, non verso l'oriente e non verso l'occidente, ma verso l'alto. Con un senso di meraviglia, si trovò a galleggiare come un uccello nell'aria calda di una notte d'agosto, proprio sopra quelle sue antiche stanze. Ne vide il tetto; era la prima volta che lo vedeva. Era sostenuto da grandi travi di legno scuro ed era coperto da tegole di ceramica verde, decorata in cento forme diverse: a forma di onda, a forma di pesce, a forma di uccello, a forma di drago, un drago come lui ma che a lui sembrava molto più forte e molto più felice.

Si alzò ancora un po', e il suo sguardo abbracciò tutto il grande complesso del palazzo imperiale. Era avvolto nel buio; le persone dormivano dopo una giornata come tante, ma dormivano anche le fontane e gli alberi nel parco. Solo qualche luce era ancora accesa: il cortile della caserma delle guardie, l'area davanti al grande portone d'ingresso che dava sulla strada, persino le finestre di suo padre e di suo zio.

Ma non si fermò; non era in quell'agiata miseria terrena che voleva restare. Tenryu voleva volare via e andò ancora più in alto. Ora aveva sotto di sé l'intera capitale dell'impero di Orientalia. Prigioniero com'era, non l'aveva mai vista veramente; sicuramente non l'aveva mai vista così. Era piena di luci, di vita, di storie e di individui, di case e di macchine, di negozi e di ristoranti e di grattacieli illuminati, di mille altre cose che lui nemmeno capiva cosa fossero, ma che sembravano interessanti; sembravano le porte verso qualche fantastica avventura da ragazzo più grande.

Non fu ancora sufficiente. Tenryu si alzò sempre più in alto: il suo obiettivo quella notte erano le stelle. Vide la capitale rimpicciolirsi, mentre il resto del suo impero compariva alla vista; le città illuminate, le strade come fili colorati che le tenevano insieme, i villaggi sparpagliati nella campagna addormentata, le montagne completamente buie. Continuò ad ascendere verso l'universo, e vide anche l'oceano e il continente, e l'enorme impero di Centralia che ne occupava una grande parte, e poi vide l'intero pianeta diventare una palla e lui diventò un astronauta, e fu finalmente libero e lontano, e passò accanto alla luna e la guardò per un attimo ma poi proseguì, e fu nel cosmo, fu finalmente un piccolo astro perso tra le stelle.

Eppure, le stelle erano sempre lontane; non sembravano essersi avvicinate di un millimetro. Improvvisamente, Tenryu si accorse che intorno a lui non c'era più niente, ed era tutto buio, tutto vuoto, tutto freddo, non c'era niente e non c'era nessuno, solo nero e niente, niente di niente di niente, e si sentì ancora più piccolo e più solo e prigioniero, prigioniero dell'intero universo e del mistero dell'esistenza. Nemmeno volare come un'aquila poteva ridargli la sua vita, perché in fondo era quello, era solo quello ciò che desiderava, quello che era volato a chiedere inutilmente fino in fondo al cosmo; lui rivoleva la sua vita, rivoleva la sua mamma.

Così, senza più speranza, Tenryu ritornò pesante anche nel sogno e precipitò sulla terra. Si ritrovò in un corridoio di ospedale che aveva visto una sola volta, un corridoio che il suo cervello aveva dimenticato per potersi proteggere, e forse per questo l'immagine che vedeva non era proprio quella reale. Eppure, quel corridoio era tutto ciò che gli era rimasto in testa dopo avere attraversato l'intero universo, dopo averci cercato ciò che l'uomo vuole ma proprio non può avere: la possibilità di fermare il tempo e di riavvolgerlo via da un momento terribile, riportando la propria storia a una scena più felice.

Anche quel corridoio era quasi completamente buio; era appena illuminato da una luce lontana, giusto il necessario per poterlo percorrere con cautela e senza fare rumore. Il corridoio era scandito da una serie di porte chiuse, ognuna con il proprio numero attaccato sopra: uno, otto, tredici come i suoi anni, diciassette come le sillabe delle poesie haiku. Ma tutte quelle porte erano chiuse; quella sera, tutte quelle stanze erano buie. Una, una sola era la porta con la luce che filtrava da sotto la soglia, ed era l'unica porta che nessun ragazzo, nessun bambino dovrebbe mai incontrare sul proprio cammino: la porta della stanza numero quattro.

Tenryu ci si trovò davanti e la aprì: era la porta della morte. Dentro la morte, sua madre non c'era già più; anche lei era volata via verso le stelle, senza che lui nemmeno la potesse salutare. Dentro la morte ora c'era solo una stanza piena di un letto vuoto e di una luce gialla e artificiale, troppo finta per poter scacciare il buio che si agitava tutto attorno ad essa. In quella stanza, Tenryu trovò soltanto se stesso; forse un drago, forse un principe, forse solo un povero bambino che aveva scoperto il dolore troppo in fretta. Si guardò negli occhi e pianse. Non aveva più nessuno che lo potesse abbracciare, quindi cercò di abbracciarsi da solo, di mandare via il freddo che aveva gelato quell'estate che sembrava inverno. Non ci riuscì veramente, ma era il meglio che potesse fare.

つづく (continua)

Aiuto! C'è un drago nel congelatore!Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora