45. Debolezza.

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Riprendersi da quelle videocassette fu impossibile.
Rivivere la mia infanzia non servì a nulla se non a peggiorare la mia salute mentale, che ne risentì.
Mi chiusi in camera per ore, che diventarono giorni e successivamente settimane fino a diventare un mese.
Era maggio, avrei dovuto sentirmi più libera, felice per l'arrivo imminente dell'estate e spensierata nel vedere il modo in cui le giornate si allungassero.
Ma non fu così.

Mi resi conto di essere cambiata radicalmente in un solo anno: non aspettavo più con ansia la festa d'estate, non passavo più le notti con Alyssa a ridere su stupide commedie che detestavamo.
Non discutevo più con mia sorella delle mie scarse doti culinarie, né spiegavo a Cameron perché bere la vodka liscia fosse più efficace che bere dei cocktail.

Noah non era più tornato ad abitare con me, nonostante fossimo tornati insieme.
Passava quotidianamente da casa mia, lasciava un po' di spesa, si sdraiava con me sul letto e parlavamo di qualunque cosa pur di non pensare alle videocassette.
Infondo, sapevo che avevano colpito anche lui e che avevano lasciato un ricordo nella sua mente che non avrebbe mai dimenticato.
Ora anche lui mi sorrideva con compassione quando parlavo di qualcosa riguardante la mia infanzia e avrei dovuto odiarlo per questo, ma non ne avevo più le forze.

Non parlo di forze mentali, ma a livello fisico non riuscivo più neanche a reggermi in piedi.
Qualcosa stava indebolendo il mio sistema muscolare, sentivo tutte le ossa farmi male e anche camminare dal salone alla cucina mi faceva male.
Ma non ne parlai mai con Noah, né con Paige e men che meno con Jude che, da quando avevo rivisto nelle videocassette, non avevo più chiamato.
Perché sapevo che se fossi andata ad una seduta, avrei dovuto raccontarle tutto quanto e non me la sentivo.

C'erano dei giorni in cui chiedevo a Noah di non venire a trovarmi, in cui preferivo rimanere da sola a fumare. O a bere. O, peggio ancora, a drogarmi.
Sapevo fosse sbagliato, ma ne avevo bisogno. Era l'unica cosa che impedisse ai pensieri di tormentarmi, l'unica luce in un tunnel infinito.
Noah fingeva di non capire, diceva che sarebbe passato a trovarmi in serata e, quando bussava, mi impegnavo affinché non notasse gli occhi arrossati.
Bevevo vodka in quantità industriali e, quando la mia scorta terminava, andavo in uno dei supermercati lì vicino e ne riempivo due buste. Le trascinavo con me fino alla porta d'ingresso e poi, una volta dentro, nascondevo tutte le bottiglie così che Noah non riuscisse a trovarle.
Quando dovevo prendere una pillola, la facevo andare giù con un sorso di birra e l'effetto immediato di stanchezza mi costringeva a rimanere seduta a lungo.
Bere alcolici con l'assunzione di farmaci causava dei fenomeni ipotensivi -così li chiamava Jude- abbastanza gravi, per esempio mi capitava sempre più spesso di avere difficoltà nel concentrarmi anche per le cose più semplici o che le vertigini miste alla sonnolenza mi costringessero ad addormentarmi in qualsiasi luogo mi trovassi.

Ricordo ancora di quella volta in cui Noah venne a trovarmi e, mentre mi spiegava la trama di un film che avremmo dovuto vedere insieme (che, a sua detta, era un capolavoro cinematografico), io trovai così difficoltoso concentrarmi che gli chiesi di ricordarmi più volte perché per lui fosse un film tanto bello.
Non mi preoccupavo di questo, avevo ben altro a cui pensare, ma mia sorella sembrava non essere dello stesso avviso.

«Non stai mangiando a sufficienza, ne sono certa» constatò mentre parlavamo al telefono di un qualche esame che avrei dovuto dare.
«Se mangi poco non assumi alcune sostanze che ti servono per...» cercò le parole giuste, ma poi sbuffò sonoramente.
«Insomma, devi mangiare Faith».
Ma io stavo mangiando, la fame chimica mi costringeva ad ingurgitare man mano sempre più cibo di quanto il mio corpo ne richiedesse davvero.
Il problema stava poi nel “dopo”, ovvero quando mi accasciavo contro il wc e vomitavo tutto.

«Giuro che proverò a mangiare di più» promisi perché spiegarle la situazione sarebbe stato più complicato che mentirle. E mi dispiaceva dirle delle bugie perché sapevo che mi rimproverava per farmi stare bene, ma io bene non ci sarei stata più. E questo lo sapevo per certo.

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