36. Distrutto

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Radioactive – Imagine Dragons

Ash.
 
«Che hai detto? Ripeti, avanti! Dillo ancora una volta! Che cazzo hai detto?»
Il ragazzo con il cappellino da baseball al rovescio, prima di rispondere ci pensò su. Con la sua elegante arroganza, con i pensieri che si attorcigliavano l'uno sull'altro. Si voltò a guardare la folla, più giù. Più in fondo. Poi scoppiò a ridere e la sua risata rumorosa, graffiò l'aria.
«Che sei un coglione», disse, inclinando la testa.
Tra l'odore forte di birra e le bottiglie che rotolavano dal marciapiede. Tra la musica che usciva fuori dal locale come un vortice o una scusa usata. Tra risate inumidite e clacson che suonavano infuriati per un parcheggio. Il tipo dalle braccia tatuate sferrò un dritto tra le costole del ragazzo con il cappellino. Due, tre. Poi, sputò a terra. Le sue spalle larghe, il sorriso compiaciuto, i dilatatori che gli ingombravano le orecchie bucate ed appuntite. Puzzava di alcool quel tizio. Di sporco e malconcio. Il sudore gli colava dal petto appiccicoso e tra le labbra reggeva un mozzicone di sigaretta, ormai spenta da tempo. Era affannato, stanco, con il respiro corto e debole.
Ash era più veloce, più forte e più giovane di lui.
«É tutto quello che sai fare, bello? Dammeno uno qui. Qui al centro, sul cuore» disse Ash, urlandogli in faccia, cercando di farlo arrabbiare. Intanto i suoi occhi diversi, brillavano sotto la luce del lampione.
Non mi basta, si ripeteva. Non mi basta mai.
Il tipo davanti a lui, aveva sui trent'anni e la barba sudicia, lo infastidiva. Ash girò in tondo, poi restò immobile per un minuto. Aspettava una sua mossa, un suo colpo. Qualunque cosa potesse entrargli veramente dentro.
Come in una gabbia, una ventina di ragazzi scalpitavano eccitati, appiccicati l'uno all'altro.
Ash non sentiva quello che dicevano, non sentiva le loro stupide voci. Del resto, nemmeno gli importava. Quelli si leccavano i baffi, digrignavano i denti, si passavano i soldi tra le mani unte. Volevano qualcosa di rotto, un incontro che li poteva tener a bada, che era in grado togliere dalle loro teste i problemi. Il tipo afferrò Ash per i fianchi e lo sbattè a terra. Poi gli sferrò un calcio dietro la schiena. La faccia gli si schiacciò a terra, il freddo dell'asfalto lo sentì entrare fino alle ossa.Poi il colpo che aveva chiesto, arrivò, lì proprio sul cuore.Il sangue gelido, la pelle calda.
Ash non aveva attutito, ma si alzò lo stesso.
Ora toccava a lui. Lo strattonò e provò a dargli un pugno.
Dai fammi male. Dai reagisci. Pensava.
Dai fammi provare qualcosa. Qualsiasi cosa.
Il tipo grosso si liberò dalla presa di Ash e tentò di scagliarlo contro una macchina. Lo spinse, continuò ad infilzarlo con pugni liberi e prepotenti.
Ash lo lasciò giocare. Fin quando le unghie non lo graffiarono e le braccia tozze e grandi, gli si avvolsero intorno al collo.
Si lasciò stringere, stringere fino a soffocare.
Fammi male. Più forte. Avanti.
Perché quando c'è il vuoto che avanza, tu vorresti solo ritrovare il cielo in una stanza.
Ma cos'è veramente il vuoto? Un magone? Un dolore? Non provare niente. Non sentire niente. Nemmeno la paura.
Ash puntò per un attimo i lacci delle sue scarpe. Forse i legami tra le persone, erano così. Lacci troppo stretti, troppo lenti. O ti strozzano o ti tengono appeso. O ti soffocano o ti tirano su. E lui avrebbe voluto stringersi forte al suo filo, non lasciarlo andare. Se solo non l'avesse tagliato con le sue stesse mani.
Lacci.
Legami.
Parole.
Ora si sentiva come un orologio fermo. Il tempo non passava. L'amore non passava.
Poi una risata.
Una risata che avrebbe riconosciuto ancora, tra altre mille. In mezzo al casino, in mezzo alla fine del mondo, in mezzo ad un'esplosione.
E la vide. La vide entrare nel locale affianco. Con le mani che gesticolavano, con quella semplicità che le era propria, con il vento della notte che le accarezzava i capelli scarlatti. E tutto quel sole che si portava addosso. E l'ombra che sapeva, la spaventava. Qualcosa dentro Ash, si ruppe. Qualcosa fece crac ancora una volta. Ed ebbe l'impressione di non poterlo aggiustare.
Lei era reale.
Lei era davvero reale, in mezzo a tutto il resto.
Ash si divincolò dal tizio, si tirò in piedi e se ne andò.
Si fece strada tra la gente, che spingeva e che pulsava, ma lei non c'era più.
Svanita.
Svanita come le sue emozioni.
Infilò una mano nelle tasche dei jeans, prese il pacchetto di Marlboro, se ne accese una.
Ecco tu sei questo, Meg.
Sei il vetro che mi divide il cuore. Non posso toccarlo senza graffiarmi. Senza lacerarmi. Senza scavarmi dentro.
Ecco tu sei questo.
L'impatto.
Lo schianto.
I miei mostri, se ne vanno via se ci sei tu. I miei mostri, non hanno bisogno di strapparmi il cuore se ci sei tu. Perché quel cuore, appartiene a te.
Solo a te.
Sempre a te.

C'era una volta Alice ( Favole Di Carta )Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora