Capitolo XXIII-Un clan in caos

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Non può essere la sua.
Fissavo quel tessuto sporco di sangue e di detriti rilasciati dal muro di pietra, stretto tra le mie mani e il volto di Hazel mi riaffiorava nella mente.

Più provavo ad auto convincermi che quella felpa non fosse sua, più mi rendevo ridicolo dinanzi all'evidenza perché, sebbene le sue felpe erano sempre semplici, prive di disegni o scritte varie e facilmente confondibili con le altre, quella non poteva che essere sua.
Aveva persino il suo odore.

E fu quell'odore a mandarmi fuori di testa. Mi trasformai alla vista e all'aroma che emanava il sangue di Hazel e come me, anche gli altri non riuscirono a farne a meno.

Provai gelosia e rabbia nei confronti dei miei compagni attratti da ciò che sarebbe dovuto essere mio e vergogna per quella depravata voglia e desiderio che provavo in quel momento.
Avevo sete di Hazel.

Cercai di colmare la fame con una fialetta di sangue che Garret lasciava ad ognuno di noi in casi simili ma con scarsi risultati.
Quel sangue animale non avrebbe placato neanche un quarto della mia fame.

Non mi nutrivo da molto tempo e quell'odore non fece che peggiorare il tutto.
Ben presto, sarebbe diventata un'agonia per me.

Non volevo pensare a lei.
Mi rendeva suscettibile, irascibile e più pensavo a lei, più perdevo il controllo del mio corpo e uno come me non poteva permetterselo.

«Datevi una calmata, tutti quanti. Non è il momento adatto per perdere il controllo» più che ordine, risultò come una supplica quanto detto da Garret.

Iniziarono a scorrermi dubbi, domande, paranoie. Mi chiesi come faceva quella felpa ad essere lì e come quei figli di puttana l'avessero ottenuta.

Cercavo di sfuggire alla soluzione più ovvia ma dolorosa, quella che mi conduceva a pensare che Hazel era stata trovata dalle ultime persone che avrebbero dovuto farlo.

Ero convinto che, se non avessi trovato Hazel, lo avrebbero fatto altri al posto mio e che, nei peggiori dei casi, sarebbe finita in mani sbagliate.

Troppo sbagliate.
Non potevo fare a meno di pensare che quella frase, il corpo carbonizzato di Scott e la felpa di Hazel fossero un chiaro riferimento a ciò a cui andavamo incontro se solo avessimo continuato a trovare una soluzione e una risposta a tutto.

Gli Dei dovevano odiarci davvero tanto per infliggere a noi, a me, una condanna del genere.

Non so per quanto tempo dovetti ascoltare i singhiozzi di Rachel spaventata e in preda al panico ma, quella notte, restare alla villa era proibito tanto quanto la loro presenza a Medwegya.

«Andate via» dissi a Steve che non si spostò dal punto in cui era, né accennò l'intenzione di volersene andare ma, il volto sconvolto del lupo, fu la causa che mi portò a pensare al fatto che avevo fallito, ancora una volta.

Dopo svariati minuti, rimanemmo solo noi due nel lungo, freddo e tetro corridoio del sotterraneo.
Hunter aveva accompagnato Rachel all'esterno per farle prendere aria con Stephan e Kyle che, per sicurezza, li seguirono nel caso si fosse presentato qualche vampiro.

Garret , dal canto suo, si era rintanato nel suo ufficio senza esprimersi, senza commentare quanto visto.
Se ne andò ordinando a Tyson e Denver di pensare al cadavere e togliere tutto il sangue presente.

L'odore si sarebbe, ben presto, sparso in tutta la villa scatenando inammissibili reazioni.
Inoltre, nessuno, oltre noi, avrebbe dovuto vedere le condizioni in cui riservava la sagoma.

Steve si accasciò a terra coprendo il viso con le mani e, per un secondo, percepii il dolore che lo lacerava in quell'istante. Lo stesso dolore che provavo io.

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