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Cambiare casa non è mai stato un grande problema per me; forse all'inizio quando ero più piccina, ma non posso dirlo con certezza. È probabile che il mio cervello abbia cancellato a riguardo ogni traccia dei miei ricordi, forse per autodifesa. Chissà.


In ogni caso, posso dire che, passando da un affidamento all'altro per quasi ventun anni, ho avuto tutto il tempo di questo mondo per abituarmi a spostare in continuazione quel poco che di mio possedevo, tra cui me stessa.


Anche quando ho iniziato la convivenza con il mio ormai ex ragazzo non ho battuto ciglio e mi sono adattata. Infatti, come ogni volta precedente a quella, ho preparato in fretta e furia il mio borsone di fiducia, un po' sfilacciato e consunto da tutto quell'andirivieni frenetico che ha dovuto subire negli anni, e mi sono trasferita, come se nulla fosse. L'unica differenza era che credevo che quella sarebbe stata l'ultima volta in assoluto. Ero fiduciosa di ciò che il futuro mi stesse riservando, o meglio di ciò che pensavo che il futuro stesse riservando per me, Olivia Green. A distanza di quasi tre anni, tuttavia, posso confermare - e ne ho finalmente preso coscienza - di essermi presa un enorme palo in faccia. L'ennesimo, devo ammettere, da cui però non sono ancora rinvenuta del tutto.


«Amore, sono a casa!», urlai una volta varcata la soglia di casa, stravolta e affamata.

La giornata era stata estremamente pesante. Dopo il turno in ospedale, infinito come sempre, ero corsa più veloce della luce al ristorante per non arrivare in ritardo un'altra volta, ma invano.

"«Hai intenzione di farti licenziare, Green?», disse il mio capo, «Questo è il tuo ultimo avvertimento», affermò con tono acido e iroso, puntandomi il dito contro prima di sparire, come un fantasma in mezzo al muro, nel suo ufficio. Mi limitai ad annuire e mi misi subito al lavoro, consapevole che se avessi sgarrato di nuovo avrei dovuto dire definitivamente addio ai miei studi."

Posai distrattamente le chiavi sul piccolo mobiletto all'ingresso dell'appartamento e mi diressi in cucina. Dylan non c'era. Mi diressi in bagno e di lui nemmeno l'ombra. "Mh, strano", pensai, "dovrebbe già essere a casa a quest'ora". Alzai un poco le spalle, sospirando dispiaciuta. Decisi perciò di andare in camera a prendere un cambio per fare una doccia calda e nel mentre aspettarlo, ma non appena aprii la porta non riuscii a credere a ciò che stavo vedendo.

Sopra di lui si ergeva una figura chiaramente femminile, completamente nuda e intenta a godersi il suo corpo finché Dylan non si accorse di me e decise di spostarla di forza da sé, lei prima controvoglia e subito dopo imbarazzata.

«Olivia...», riuscì solo a dire, ma subito lo zittii. «Fuori da questa casa», dissi con troppa calma nella voce, «ORA!». Questa volta esclamai, le lacrime sul punto di cadermi calde sul viso e le braccia lungo i fianchi, come a tenermi dal strangolarlo. Cercai di fare lunghi respiri per mantenere la calma.

«Non è come pensi...», provò nuovamente a parlare, ma questa volta mi avvicinai veloce come un avvoltoio con la sua preda e, con tutta la forza che trovai nel mio corpo, lo afferrai gettandolo fuori dal letto. Lui sobbalzò, non pronto a quella mia reazione così come la sua amante, che vidi allontanarsi impaurita.

«VATTENE!», urlai, la voce incrinata dal pianto imminente e gli occhi iniettati di sangue dalla rabbia. «SEI UN LURIDO PORCO!», lo aggredii verbalmente, sopraffatta dal fiato che piano piano sentivo mancarmi sempre di più dal petto. Intanto, gli occhi dei due fedifraghi erano puntati su di me.

Dylan tentò di avvicinarsi, ma come un ninja balzai e lo tenni il più lontano possibile. «Avvicinati e giuro che ti ammazzo, sai che ne sono in grado», riuscii a dire con una calma spaventosa, sentendomi come in equilibrio su un filo teso similmente a una corda di violino e sul punto di spezzarsi.

Legame di sangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora