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«Ne sei proprio sicuro?», sento Nathan chiedere al telefono.

È l'investigatore.

«Va bene, se trovi altro chiamami subito», sentenzia lapidario e riattacca.

Il suo sguardo si rivolge subito a me, che sono rimasta sul letto in silenzio ad ascoltare la chiamata.

«Che cosa ti ha detto?», la mia voce esce timorosa.

«È autentico», conferma subito mio marito.

«Quindi i miei genitori hanno davvero lavorato per i tuoi prima di morire», realizzo abbassando la testa a guardare la mia mano ferita.

«A quanto pare sì», mormora sedendosi di nuovo vicino a me, pensieroso.

«È tutto così strano e complicato», ammetto scuotendo la testa e sospirando.

«Olivia...», mi richiama mio marito, «...c'è dell'altro», sussurra.

«Lo sapevi?», chiedo non riuscendo a porre freno alla mia lingua, ma subito me ne pento quando alzo lo sguardo e vedo l'espressione di sorpresa che nasce repentina sul suo volto.

«No, non sapevo di questa cosa», si difende dalla mia accusa. «Però ora ha tutto più senso», continua mordendosi il labbro inferiore, come se la sua vita dipendesse dalla scelta della sua prossima mossa da compiere.

«Come fai a dirlo?», domando scrutandolo per bene nel tentativo di ottenere più informazioni possibili dalle emozioni che lascia trasparire.

Lo osservo fare un gran bel respiro prima di afferrare le mie mani, con grande cautela per non farmi del male a quella tagliata, e iniziare a parlare.

«Non sono stato del tutto sincero con te quando ti ho proposto il contratto»

La sua confessione subito mi porta ad aprire la bocca per chiedergli che cosa intenda dire, ma prima che io possa proferire parola mi zittisce portando un dito alle mie labbra.

«Ti prego, prima fai parlare me e poi sarai libera di dire e fare quello che vorrai», aggiunge quasi come se mi stesse pregando per ascoltarlo. Dunque, mi limito ad annuire e ad accontentarlo.

«La mancanza di onestà che mi sono portato dietro fino ad ora è stata una conseguenza del fatto che, in realtà, ti conosco da molto più tempo di quanto tu creda. E il fatto che tua madre e tuo padre abbiano lavorato nella nostra tenuta spiega ogni cosa», afferma.

Al suo preambolo il mio cuore è piombato a terra ed è ritornato al suo posto già una decina di volte.

Mi conosceva? E io conoscevo lui?

Non riesco a ricordarlo.

«Nel 1996, l'anno prima che io nascessi, i miei genitori presero in affidamento una bambina che all'epoca aveva solo un mese. Si chiamava Lidia Montgomery e lo ricordo come se fosse ieri dal momento che, una volta cresciuto abbastanza, iniziammo a giocare sempre insieme. Era per me l'amica che qualunque bambino sognerebbe di avere: dolce, leale, carismatica e soprattutto bellissima. Eravamo inseparabili e io ne ero follemente innamorato. La veneravo come un tempo si veneravano le divinità perché io per lei stravedevo. Un giorno, però, mio padre e mia madre permisero che qualcuno la portasse via dalla tenuta. Ancora oggi non ne conosco il motivo. E fu da quel momento che non la vidi più. Passai gli anni a pensare a dove potesse trovarsi e a che fine avesse potuto fare a tal punto che persi le speranze e decisi di andare avanti, come già sai, finché...», il suo respiro è affannato e irregolare dalla velocità con cui vomita ogni parola, «...finché non mi hai ritrovato», concludo io per lui con il viso ormai inondato dalle lacrime e la voce tremante. In risposta lui annuisce.

Legame di sangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora