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Ritrovarmi di fronte all'ospedale senza doverci entrare per lavorare è tutto un altro paio di maniche.

La sensazione è simile a quando si è all'aeroporto mentre si aspetta di fare i controlli con il metal detector prima di potersi imbarcare sul grande velivolo.

È come se stessi partendo per andare in vacanza in qualche isola bellissima e remota nel mondo. In questo caso, però, la meta mi è del tutto sconosciuta e ad accompagnarmi è Nathan, il ragazzo più freddo mai conosciuto finora.

Chi l'avrebbe mai detto? Di sicuro non io.

Arrivo di fretta al parcheggio dell'edificio, dove subito perdo un po' l'orientamento a causa della moltitudine di macchine parcheggiate. Jeep, BMW, Mercedes, Audi, Maserati, Porsche... e potrei andare avanti all'infinito se non fosse che il resto dei nomi nemmeno lo conosco.

Devo ammettere che la maggior parte di coloro che lavorano all'Artemis General e nei grattacieli della zona sta particolarmente bene perché non si lascia mancare proprio nulla. Tutte queste vetture sono così nuove di zecca e tirate a lucido che spesso mi ritrovo a specchiarmici sopra mentre scorro velocemente tra l'una e l'altra, alla ricerca di quella che ormai da parecchi minuti inonda i miei pensieri: nera, grande e con i vetri oscurati.

Il mio sguardo assomiglia a quello di un'aquila che, dispiegando le ali per volare nel cielo più alto, scruta con bramosia il paesaggio nel tentativo di catturare una facile preda.

Tuttavia, non sono un'aquila e infatti non la trovo, scoraggiandomi ancora di più nel momento in cui mi accorgo che non c'è nemmeno nel posteggio in cui Nathan l'aveva lasciata qualche settimana fa.

Mi fermo un secondo e sospiro rumorosamente, lasciando che le braccia cadano lungo i miei fianchi. Intanto, le dita tamburellano nervose sulle mie cosce coperte dai jeans scuri, mentre giro il capo a destra e a sinistra per controllare se la macchina sia sfuggita al mio occhio.

Perché sono così agitata? Dopotutto, sarà una semplice uscita come tutte quelle avute con altri ragazzi negli ultimi anni, no? Non capisco perché debba preoccuparmi in questo modo.

Sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio e do ancora un'occhiata in giro, sicura che Nathan si sia dimenticato di me, quando finalmente arriva.

La mia speranza si è riaccesa.

«Olivia», sento chiamare il mio nome e subito mi volto verso la voce.

«Nathan», rispondo con un mezzo sorriso, sventolando anche la mano in segno di saluto che, però, tiro subito giù rendendomi conto di quanto sia imbarazzante.

Intanto, lui mi raggiunge a passo lento con un'espressione seria sul volto.

A fasciargli il petto non ha più la divisa, ma una camicia blu scura, che tiene un poco sbottonata e arrotolata sugli avambracci e che è tanto aderente da mettere in risalto la sua muscolatura pronunciata al di sotto. Con la mano destra, invece, stringe per i manici un borsone nero.

Sento che potrei svenire da un momento all'altro.

«Non trovavo la macchina», ammetto mordendomi leggermente il labbro inferiore dalla tensione e cercando di non fissarlo troppo o di non far cadere l'occhio dove non è lecito.

«È normale, non sono venuto qui con quella dell'altra volta», afferma con estrema scioltezza mentre mi supera, come se non mi avesse appena urlato "povera" in trenta lingue diverse.

Strabuzzo gli occhi a quelle parole, ma comunque inizio a seguirlo.

Quante diamine di macchine ha? Non poteva avvisare prima che mi facesse saltare i nervi?

Legame di sangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora